TinyDropdown Menu diaconiperugia: novembre 2008

venerdì 21 novembre 2008

AVVISO IMPORTANTE

Si comunica ai Diaconi e Aspiranti che il 2° Incontro di Liturgia
di domenica 23 Novembre 2008 alle ore 15.30 con Don Antonello non ci sarà.

giovedì 20 novembre 2008

IL VANGELO DELLA DOMENICA

23 novembre 2008 SOLENNITÀ DI CRISTO RE DELL’UNIVERSO Anno A Mt 25,31-46 Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch'essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l'avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna. I Diritti dell’uomo Questo testo che si trova unicamente in Matteo è l’ultimo insegnamento di Gesù prima che gli avvenimenti precipitino con il suo arresto e condanna a morte. Come parole finali del suo insegnamento hanno una forza particolare. Anche qui l’evangelista riprende un tema trattato nel discorso della montagna e che viene riassunto con la formula: “tutto quanto volete che gli altri facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa è infatti la Legge e i Profeti” (Mt 7,12). Come nelle Beatitudini il comportamento che consente l’accoglienza o meno nel Regno non riguarda l’atteggiamento nei confronti di Dio ma del prossimo. ______________________________________________________________________________________ 31 -{Otan de. e;lqh o` ui`o.j tou/ avnqrw,pou evn th/ do,xh auvtou/ kai. pa,ntej oi` a;ggeloi metV auvtou/( to,te kaqi,sei evpi. qro,nou do,xhj auvtou/\ Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà (lett. allora) sul trono della sua gloria; _____________________________________________________________________________________ 32 -kai. sunacqh,sontai e;mprosqen auvtou/ pa,nta ta. e;qnh( kai. avfori,sei auvtou.j avpV avllh,lwn( w[sper o` poimh.n avfori,zei ta. pro,bata avpo. tw/n evri,fwn( davanti a lui verranno radunati tutti i popoli, e separerà (lett. questi), gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, ______________________________________________________________________________________ La parabola riguarda principalmente i pagani (pa,nta ta. e;qnh = pánta tà éthnē) e non gli israeliti per i quali era riservato il termine greco lao.j (popolo) e il cui giudizio è stato già trattato in Matteo 19,28. Ma mediante questo termine “genti-popoli” (e;qnh), si intende abbracciare tutti gli uomini (cfr. 24,12; 28,19) destinandoli alla pienezza della vita. L’immagine della venuta del “Figlio dell’uomo” (già espressa in 24,30) è da intendere, secondo il linguaggio dell’evangelista, come la vittoria di tutto ciò che è umano. Matteo presenta la realizzazione piena del progetto di Dio, che si è manifestata in Gesù e, tramite Lui, in quanti lo riconoscono come modello di vita. Nell’uomo realizzato splende la pienezza della condizione divina, per questo Egli siede sul “trono della sua gloria” (espressione che nell’AT indica la presenza di Dio nel tempio, cfr. Ger 17,12). Per questo tutto il discorso è da leggere in chiave di umanità: chi dimostra attenzione verso i bisogni dell’altro e interviene per aiutarlo, non importa quale religione professi, costui entra nella vita. L’azione del Figlio dell’uomo si paragona a quella di un pastore che alla sera separa le pecore dai capri. Tale separazione era dovuta normalmente al lavoro della mungitura. ______________________________________________________________________________________ 33-kai. sth,sei ta. me.n pro,bata evk dexiw/n auvtou/( ta. de. evri,fia evx euvwnu,mwnÅ e porrà le pecore alla sua destra e invece le capre a sinistra. ______________________________________________________________________________________ Mentre il lato sinistro è sempre considerato negativo ( nel brano il lato sinistro è senza pronome possessivo= non appartiene a Dio), quello destro è positivo: “mi indicherai il sentiero della vita: gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra” (Sal 16,11). Il posto d’onore più vicino al re era sempre quello di destra. ______________________________________________________________________________________ 34-to,te evrei/ o` basileu.j toi/j evk dexiw/n auvtou/\ deu/te oi` euvloghme,noi tou/ patro,j mou( klhronomh,sate th.n h`toimasme,nhn u`mi/n basilei,an avpo. katabolh/j ko,smouÅ Allora il re dirà a quelli alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo, ______________________________________________________________________________________ 35-evpei,nasa ga.r kai. evdw,kate, moi fagei/n( evdi,yhsa kai. evpoti,sate, me( xe,noj h;mhn kai. sunhga,gete, me( perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, ____________________________________________________________________________________ 36-gumno.j kai. perieba,lete, me( hvsqe,nhsa kai. evpeske,yasqe, me( evn fulakh/ h;mhn kai. h;lqate pro,j meÅ nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. ______________________________________________________________________________________ Come il pastore separa facilmente le pecore dai capri, lo stesso farà il Figlio dell’uomo che distingue subito chi sono i giusti e chi i malvagi, senza bisogno di aprire e consultare libri o elenchi particolari. Chi porta vita in sé lo si può percepire guardandolo a vista (cfr. Mt 13,30.48). Il Figlio dell’uomo si presenta ora nella veste del re che invita, quelli alla sua destra, ad andare da Lui per ricevere il Regno. Si tratta di entrare nella condizione di eredi che hanno la più alta dignità, realizzando così la volontà del Padre che fin dalla fondazione del mondo aveva preparato per l’uomo un tale destino. Dio si mantiene fedele al suo progetto. I “benedetti” ricevono il Regno perché sono stati misericordiosi. Il re elenca sei opere di misericordia nelle quali risalta l’assenza di comportamenti inerenti al culto di Dio ( gli atti di religione ). Ciò che consente o no di avere la vita eterna non è il comportamento tenuto nei confronti della divinità ma quello nei confronti degli uomini considerati più bisognosi nei quali il re si identifica. Nel Talmud c’è un’immagine simile a quella presentata dall’evangelista riguardo al giudizio delle nazioni pagane: “nell’aldilà, il Santo, che benedetto sia, prenderà un rotolo della Torah, se lo poserà sulle ginocchia e dirà: chi se ne è occupato, venga e riceverà la sua ricompensa” (‘Aboda Zara 2a,b. cfr. Midraš. Sal 118,17). Mentre nel Talmud il giudizio riguarda l’atteggiamento tenuto nei confronti della Legge, in Matteo il giudizio riguarda il comportamento tenuto verso l’altro. Questo comportamento tiene conto della risposta alle elementari, indispensabili esigenze umane, che consentono all’uomo di rimanere in vita e che erano ben conosciute nella cultura del tempo. Per questo vengono elencate il mangiare e il bere, l’accoglienza allo straniero, vestire chi non ha di che coprirsi (Is 58,7; Ez 18,7.16; Tb 4,16; Gb 31,32) e l’assistenza al malato (Sir 7,35). La risposta a questi elementari diritti di ogni uomo è in linea con il volere di Dio: “poiché i bisognosi non mancheranno mai nel paese perciò io ti do questo comando e ti dico: apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nel tuo paese” (Dt 15,11). ______________________________________________________________________________________ 36-…“ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. ______________________________________________________________________________________ L’ultima azione elencata da Gesù non compare nella lista delle opere a favore degli ultimi. Il carcerato viene considerato una” persona” giustamente punita e quindi responsabile del castigo ricevuto. Andare a trovare un carcerato non significa visitarlo, ma alimentarlo in quanto i carcerati dipendevano per il vitto dai loro familiari o amici. L’attenzione ai carcerati sembra essere una caratteristica esclusiva di Gesù (Eb 10,34; 13,3). Coloro che vengono chiamati “benedetti” non hanno dovuto compiere delle opere spettacolari, ma soltanto quei gesti accessibili a tutti, che fanno parte del quotidiano e che tutti possono compiere. ______________________________________________________________________________________ 37-to,te avpokriqh,sontai auvtw/ oi` di,kaioi le,gontej\ ku,rie( po,te se ei;domen peinw/nta kai. evqre,yamen( h' diyw/nta kai. evpoti,samenÈ Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? ______________________________________________________________________________________ 38-po,te de, se ei;domen xe,non kai. sunhga,gomen( h' gumno.n kai. perieba,lomenÈ Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? ______________________________________________________________________________________ 39-po,te de, se ei;domen avsqenou/nta h' evn fulakh/ kai. h;lqomen pro,j seÈ Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. ______________________________________________________________________________________ 40-kai. avpokriqei.j o` basileu.j evrei/ auvtoi/j\ avmh.n le,gw u`mi/n( evfV o[son evpoih,sate e`ni. tou,twn tw/n avdelfw/n mou tw/n evlaci,stwn( evmoi. evpoih,sateÅ E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”( lett. a me (l’) avete fatto). ______________________________________________________________________________________ Al momento della Risurrezione Gesù indicherà con il nome di “fratelli” i suoi discepoli (28,10), coloro che compiono la volontà del Padre (12,50). Ora, dalle parole del “Re”, apprendiamo che nella categoria di fratelli sempre sono state incluse tutte le categorie umane, le più bisognose d’aiuto, carcerati compresi. È questa la novità che presenta Matteo nei confronti della tradizione biblica e delle altre religioni (vedi “Libro dei morti” presso gli Egiziani, dove si trovano elenchi delle opere di misericordia, ma in nessuno di essi la divinità si identifica con la persona bisognosa). Il fatto che Gesù ritenga compiuto verso se stesso quel che vien fatto verso i bisognosi non giustifica la teoria di vedere Cristo nel povero. Il bisognoso va aiutato in quanto tale e non per una presunta presenza del Signore in essi. È con lo stesso amore che abbiamo verso Dio che andiamo verso i fratelli. Andare verso i fratelli, con lo stesso amore che nutriamo per Dio, è il segno dell’autenticità del nostro amore, dell’autenticità della nostra persona e della maturità del nostro essere uomini secondo il modello del “ Figlio dell’Uomo”. ______________________________________________________________________________________ 41-to,te evrei/ kai. toi/j evx euvwnu,mwn\ poreu,esqe avpV evmou/ Îoi`Ð kathrame,noi eivj to. pu/r to. aivw,nion to. h`toimasme,non tw/ diabo,lw kai. toi/j avgge,loij auvtou/Å Allora dirà anche a quelli a sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, _______________________________________________________________________________________ 42-evpei,nasa ga.r kai. ouvk evdw,kate, moi fagei/n( evdi,yhsa kai. ouvk evpoti,sate, me( perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ______________________________________________________________________________________ 43-xe,noj h;mhn kai. ouv sunhga,gete, me( gumno.j kai. ouv perieba,lete, me( avsqenh.j kai. evn fulakh/ kai. ouvk evpeske,yasqe, meÅ ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. ______________________________________________________________________________________ Unica volta in Matteo in cui compare il termine maledetti (kathrame,noi = katēraménoi), ma in questa occasione la maledizione non proviene da Dio, come si era visto per il primo gruppo (“benedetti del Padre mio”). Il Padre “benedice”, chi si chiude alla vita maledice se stesso. La tremenda invettiva è per coloro che sono stati sordi ai più elementari bisogni degli esseri umani (cfr. 7,23). Negare l’aiuto all’altro è come ucciderlo. Se la risposta era un fattore di vita, la mancata risposta è causa di morte. La maledizione di costoro richiama quella del primo assassino della Bibbia, il fratricida Caino: “ora sii maledetto” (Gen 4,11). Per l’ultima volta compare nel vangelo la figura del diavolo (4,10; 12,26; 13,39; 16,23) e viene annunciata la sua totale e definitiva sconfitta. Insieme al diavolo vengono completamente annientati anche i suoi messaggeri. L’espressione “fuoco eterno” è già apparsa in 18,8 in relazione allo scandalo nei confronti dei “piccoli”. Gesù aveva avvertito colui che è causa di scandalo che è meglio per lui entrare nella vita monco o zoppo che andare a finire per intero nel “fuoco eterno”, sinonimo della “geenna di fuoco”, luogo dell’annientamento totale. Da notare che il fuoco, segno di distruzione, a differenza del Regno non è stato preparato fin dalla fondazione del mondo; questo fuoco è preparato per il diavolo e per i suoi angeli e non per gli uomini! Ma chi va a finire in questo “ luogo”, va incontro alla distruzione totale, conclusione logica per chi, privando di vita gli altri, si esclude dalla vita. ______________________________________________________________________________________ 44-to,te avpokriqh,sontai kai. auvtoi. le,gontej\ ku,rie( po,te se ei;domen peinw/nta h' diyw/nta h' xe,non h' gumno.n h' avsqenh/ h' evn fulakh/ kai. ouv dihkonh,same,n soiÈ Anch'essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. _______________________________________________________________________________________ 45-to,te avpokriqh,setai auvtoi/j le,gwn\ avmh.n le,gw u`mi/n( evfV o[son ouvk evpoih,sate e`ni. tou,twn tw/n evlaci,stwn( ouvde. evmoi. evpoih,sateÅ Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l'avete fatto a me” (lett. neppure a me (l’) avete fatto). ______________________________________________________________________________________ 46-kai. avpeleu,sontai ou-toi eivj ko,lasin aivw,nion( oi` de. di,kaioi eivj zwh.n aivw,nionÅ E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna. ______________________________________________________________________________________ La risposta di quelli a sinistra è formulata come una domanda dove si elencano in modo sintetico le sei situazioni di necessità già esaminate. Questo gruppo però non fa riferimento alcuno alle azioni che accompagnano la presa di coscienza di tali situazioni: essi non dicono “quando mai ti abbiamo visto affamato e non ti abbiamo dato da mangiare…?”, ma concludono con un generico “e non ti abbiamo servito?”. Il verbo qui adoperato “dihkonh,same,n soi da diakone,w = diaconéō : quello tipico della sequela cristiana, ma i componenti di questo gruppo lo rivolgono al Signore, secondo quella mentalità tradizionale per cui il servizio deve essere offerto alla divinità. Per questo quegli individui si sorprendono del rimprovero ricevuto: “Signore, quando ti abbiamo visto…?” evidentemente essi credono di “aver servito” Dio mediante le loro pratiche religiose, tra le quali non risulta in alcun modo il fatto di dargli da mangiare o bere, di vestirlo, di accoglierlo straniero, visitarlo ammalato e andare da lui in carcere ( le 6 opere di misericordia). Sono talmente concentrati nelle loro devozioni che sono incapaci di vedere le situazioni di necessità degli uomini. Unica volta nel vangelo appare il termine: “ko,lasin = kólasin = punizione/castigo”. Il termine proviene dal verbo kola,zw che significa anche mutilare. Il castigo/punizione è una vita mutilata non giunta a pienezza. L’espressione di Matteo si rifà all’immagine contenuta nel Libro di Daniele: “molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna” (Dn 12,2). Ma l’evangelista inverte i termini del brano di Daniele, e mette per ultimo “la vita eterna”; quindi la pericope finisce al positivo. La punizione o infamia eterna, unica volta in Mt non comporta un castigo supplementare post-mortem, ma la definitiva scomparsa della persona. Non c’è, a differenza di altri testi apocalittici, alcuna descrizione di tale punizione. Il contrario di una vita eterna definitiva, è la morte definitiva, per sempre. È quel fallimento definitivo dell’uomo che nell’Apocalisse viene detto la seconda morte (Ap 2,11; 20,6.14; 21,8). L’intenzione dell’evangelista, presentando il forte contrasto tra chi entra nella vita e chi finisce nella perdizione, è quella di sollecitare i credenti cristiani ad essere misericordiosi, per vivere in pienezza il programma del Regno (“beati i misericordiosi” – Mt 5,7; cfr. 18,33). Il tema della misericordia è fondamentale in Matteo che riporta per due volte nel suo testo il detto di Osea: “misericordia voglio e non sacrificio” (9,13; 12,7). È la pratica della misericordia che rende il credente: -fedele alla Parola del Signore -pronto per accoglierlo come lo sposo delle nozze del Regno -capace di realizzarsi come persona. (parabola del servo leale 24,45-51) (parabola delle dieci ragazze 25,1-13) (parabola dei talenti 25,14-30). Riflessioni… C’è una verità preannunciata… adesso pienamente realizzata:
  • La venuta del “Figlio dell’Uomo”, questa volta, non cacciato fuori ma pienamente affermato. “Il Re”, vittorioso, perché ciò che era stato un tempo valutato un fallimento, adesso è gloria/realizzazione piena e gloriosa.
  • Il progetto di Dio si manifesta realizzato in Gesù/Figlio dell’Uomo e, tramite Lui, alla portata di quanti lo riconoscono come modello di vita. Nell’uomo realizzato splende la pienezza della condizione divina , per questo Egli siede sul “trono della sua gloria”.
  • Davanti al trionfo di una sfolgorante ed inequivocabile verità, per attrazione, avviene una assemblea, una chiesa universale, un raduno di tutti i popoli. Come per la mungitura, bisogna separare quelli che sono pieni (= i misericordiosi = i giusti = i fedeli alla vera Legge = alla destra del Re), da quelli che sono vuoti (= i non misericordiosi = ingiusti = i non fedeli alla vera Legge = a sinistra...).
  • Riconoscimenti ( sentenze ): 6 benedizioni e festa/approdo definitivo nella vita e 6 proclami di auto-esclusione dalla vita. Criterio di valutazione: 6 opere/situazioni di misericordia/amore o di rifiuto; la vera Legge, il vero culto o la falsa Legge e il falso culto. Per farcelo capire, inequivocabilmente, “il Re” si identifica con l’indigente e il bisognoso… per riempire di grazia/beatificare e benedire l’uomo.
  • Attenti che bisogna ancora percorrere con Lui la strada della passione-morte (capp. 26-27 di Mt) e poi… la Risurrezione.

mercoledì 12 novembre 2008

IL VANGELO DELLA DOMENICA

16 novembre 2008 XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO Anno A Mt 25,14-30 Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone-, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò poi colui che aveva ricevuto un solo talento e disse:”Signore,so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso? Avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. __________________________________________________________ Il cap. 25 riporta l’ultimo dei cinque discorsi di Gesù, con i quali Matteo struttura la sua opera. È un capitolo importante, composto da due insegnamenti in parabole (ragazze[vergini]/talenti) che sviluppano ulteriormente la tematica della parabola precedente (il servo fedele: Mt 24,45-51). La parabola delle dieci ragazze (Mt 25,1-13) inoltre riveste un ruolo particolare perché riprende lo stesso argomento con il quale Gesù conclude il discorso della montagna (Mt 6,1-7,27). L’evangelista sottolinea l’importanza per la comunità dei credenti di mettere in pratica il messaggio evangelico, perché solo quelli che praticheranno quanto annunciato da Gesù nel discorso della montagna potranno far parte del Regno. Inoltre con un accenno al futuro (“allora il Regno dei cieli sarà simile a dieci ragazze…” Mt 25,1) si apre lo scenario della tappa finale in cui si manifesta il compimento del progetto di Dio, quello di far entrare l’uomo nella pienezza di vita. Più specificamente, i vv. 14-30 offerti alla nostra meditazione di oggi, presentano ancora il “Regno dei Cieli” con un linguaggio che sembra più consono al mondo degli affari che ad un insegnamento religioso (beni, talenti, investire, guadagnare, denaro, regolare i conti, banchieri, interesse). Forse si può intravedere un monito di Matteo alla sua comunità: la fede non comporta tanto pii e devoti sentimenti ma principalmente un agire coraggioso e non esente da rischi. La parabola si configura come un paragone con il quale si vuole mostrare un insegnamento da assimilare mediante un racconto di una storia. Gesù spiega così in che cosa consista l’esortazione a “vigilare”, con la quale ha concluso la parabola delle dieci ragazze (25, 1-13). __________________________________________________________ 14 {Wsper ga.r a;nqrwpoj avpodhmw/n evka,lesen tou.j ivdi,ouj dou,louj kai. pare,dwken auvtoi/j ta. u`pa,rconta auvtou/( Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi (propri) servi e consegnò loro i suoi beni. ___________________________________________________________ Il discorso continua allacciandosi al precedente:” Allora il regno dei cieli sarà simile a… ”. I personaggi della parabola sono un uomo facoltoso e i suoi servi, ai quali consegna ingenti somme di denaro. Ma non si tratta di semplici servi, bensì di funzionari di alto rango, vista la grande responsabilità affidata ad ognuno di loro (per i servi in senso di funzionari cfr. 1Sam 8,14; 2Re 5,6). Per la comprensione del racconto è importante non trascurare certe sfumature del linguaggio: non si parla semplicemente dei funzionari ma dei “propri” = ivdi,ouj dou,louj; l’evangelista sottolinea così il rapporto di appartenenza di essi al loro Signore. Ugualmente non vengono consegnati solo dei beni, ma viene dato “ciò su cui egli aveva comando” = ta. u`pa,rconta auvtou/ = tà hiupárchonta autoû (cfr. Mt 24,47). Quest’uomo parte per andare lontano, consegnando i suoi beni ai suoi dipendenti. Egli non li dà in custodia, ma li trasferisce loro, glieli consegna (pare,dwken = parédōken): questo verbo indica un dare senza riprendere; come quando un re, alla sua morte, trasmette il potere a suo figlio o come quando un bambino viene affidato al suo pedagogo, non perché venga ricuperato un giorno, ma piuttosto perché il ragazzo diventi adulto e realizzi se stesso. __________________________________________________________ 15 kai. w- me.n e;dwken pe,nte ta,lanta( w- de. du,o( w- de. e[n( e`ka,stw kata. th.n ivdi,an du,namin( kai. avpedh,mhsenÅ euvqe,wj A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo (lett. la propria) le capacità di ciascuno; poi subito partì. ___________________________________________________________ Prima di partire il Signore trasmette ai suoi funzionari i pieni poteri sui suoi beni. Dice espressamente ciò che lui dona (5/2/1 talenti), ma senza dare un compito specifico a questi funzionari e senza offrire loro indicazione alcuna. Li lascia in piena libertà di agire. Ognuno di questi funzionari riceve secondo la forza (e`ka,stw kata. th.n ivdi,an du,namin = hekástō katà tēn idían díunamin) o capacità che gli è propria. Anche per ricevere un dono è necessario avere una forza particolare, perché non sempre si è in grado di gestire i propri doni (ad es. il ricco che non sa gioire della ricchezza). Poiché quell’uomo conosce bene i suoi funzionari (“i propri servi”), a ciascuno viene consegnata una somma di denaro secondo la propria attitudine a far fruttificare quanto gli è stato donato. Non basta solo ricevere il denaro, bisogna essere in grado di “assimilare” quel dono. Colui che ha ricevuto un solo talento non ha avuto poco in quanto un talento equivaleva all’incirca a 6.000 denarii, cioè l’equivalente di 20 anni di salario di un operaio (cfr. Mt 18,14). L’uomo pertanto affida ai suoi funzionari una grande fortuna fidandosi solo delle loro capacità, senza pretendere in cambio alcuna garanzia. L’importanza del talento è sottolineata dal fatto che nel brano il termine appare ben 14 volte. Tutte le espressioni che nel nostro linguaggio hanno per oggetto il talento (avere un talento per…) derivano da questa parabola. _________________________________________________________ 16 poreuqei.j o` ta. pe,nte ta,lanta labw.n hvrga,sato evn auvtoi/j kai. evke,rdhsen a;lla pe,nte Colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli (lett. trafficò con essi), e ne guadagnò altri cinque. _________________________________________________________ 17 w`sau,twj o` ta. du,o evke,rdhsen a;lla du,oÅ Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. _________________________________________________________ 18 o` de. to. e]n labw.n avpelqw.n w;ruxen gh/n kai. e;kruyen to. avrgu,rion tou/ kuri,ou auvtou/Å Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo Signore. _________________________________________________________ Chi ha ricevuto 5 talenti, operando con essi, ne guadagna altri 5. Il primo funzionario trasforma la somma che gli era stata consegnata, guadagnando la stessa quantità di denaro ricevuta. Poco importa la somma ricevuta (5/5 è nello stesso rapporto di 2/2), ciò che conta è l’appropriarsi di ciò che si è ricevuto per farlo fruttare. Importante perché avvenga questa trasformazione/guadagno è l’assenza del Signore. Costui non rimane a sorvegliare ciò che essi vanno a fare. Nella parabola non si dice che alla sua partenza egli avrebbe lasciato detto quando sarebbe tornato. L’assenza è sinonimo di libertà. Questi servitori si mostrano diversi tra loro, dal momento che le loro capacità di ricevere i talenti erano diverse (5/2/1), ma i primi due sono diventati uguali tra loro (5=5/2=2). Dal punto di vista della loro operosità sono degli uguali 5/5 = 2/2, e dimostrano la stessa capacità di raddoppiare il dono. Questa è l’uguaglianza (nella diversità) dove non c’è niente da invidiare all’altro, perché entrambi si sentono realizzati, si riconoscono come uguali. A differenza di questi due, il terzo funzionario seppellisce il talento perché non lo ritiene suo, ma del suo Signore. La parabola mette in evidenza questo terzo individuo, che si mostra già come un essere infelice: non crede alla generosità del Signore, non crede a se stesso come destinatario del dono. Il fatto di seppellire il talento ricorda la morte con i suoi rituali. Il dramma di questo servo è non aver saputo appropriarsi della sua vita, di ciò che essa comporta: il bene che riceve lo mette sotto terra, seppellendo se stesso. _________________________________________________________ 19 meta. de. polu.n cro,non e;rcetai o` ku,rioj tw/n dou,lwn evkei,nwn kai. sunai,rei lo,gon metV auvtw/nÅ Dopo molto tempo il Signore di quei servi tornò (lett. viene e regola), e volle regolare i conti con loro. _________________________________________________________ 20 kai. proselqw.n o` ta. pe,nte ta,lanta labw.n prosh,negken a;lla pe,nte ta,lanta le,gwn\ ku,rie( pe,nte ta,lanta, moi pare,dwkaj\ i;de a;lla pe,nte ta,lanta evke,rdhsaÅ Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco (lett. vedi), ne ho guadagnati altri cinque”. _____________________________________________________ e;fh auvtw/ o` ku,rioj auvtou/\ eu=( dou/le avgaqe. kai. piste,( evpi. ovli,ga h=j pisto,j( evpi. pollw/n se katasth,sw\ ei;selqe eivj th.n cara.n tou/ kuri,ou souÅ “Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo Signore, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo Signore”. ______________________________________________________ Dopo molto tempo il Signore venne da quei servi (non si dice che ritorna ma esattamente “egli viene” = e;rcetai = érchetai, come di una nuova venuta). Il Signore vuole fare i conti con i suoi servi nel senso di raccontare (rendere conto) ciò che è avvenuto durante la sua assenza. A questo punto del racconto l’evangelista presenta un paradosso. I cinque talenti (circa 150Kg d’oro) vengono ritenuti poco dal Signore che non solo lascia il funzionario padrone dei 5 talenti guadagnati, ma anche dei 5 che gli ha affidato (v.15) e lo invita a prendere parte al suo molto, facendolo partecipe di tutti i suoi averi (come il padrone dell’amministratore fedele al quale è stata affidata l’amministrazione di tutti i beni cfr. 24,47). Quando il Signore incontra il primo dei suoi dipendenti, costui non gli restituisce i talenti ma glie ne presenta altri 5. Costui fa vedere al Signore il suo guadagno, facendogli capire come egli ha usato sovranamente il dono che gli è stato fatto. Non si tratta quindi di restituire quanto ha ricevuto o guadagnato ma di riconoscere la sua opera. È per questo che il Signore viene, per vedere la riuscita dei suoi dipendenti e dare conferma a quanto di positivo è avvenuto. Il servo, considerato buono e fedele, uno di cui ci si può fidare, è invitato a entrare nella gioia del suo signore. Tipico di Matteo è il tema della gioia (cfr. 2,10; 5,12; 13,44; 18,13; 28,8), qui si tratta di “entrare nella gioia” per vivere un evento unico: lasciare per sempre lo stato di servo/dipendente per ricevere la condizione di “amici” (cfr. Gv 15,15). Nonostante la somma ricevuta e guadagnata sia un’autentica fortuna, un’ingente quantità di metallo prezioso, in fondo essa è poca cosa se paragonata a ciò che il servitore ha reso possibile: entrare nella gioia del suo Signore. _________________________________________________________ 22 proselqw.n Îde.Ð kai. o` ta. du,o ta,lanta ei=pen\ ku,rie( du,o ta,lanta, moi pare,dwkaj\ i;de a;lla du,o ta,lanta evke,rdhsaÅ Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco (lett. vedi), ne ho guadagnati altri due”. _____________________________________________________ 23 e;fh auvtw/ o` ku,rioj auvtou/\ eu=( dou/le avgaqe. kai. piste,( evpi. ovli,ga h=j pisto,j( evpi. pollw/n se katasth,sw\ ei;selqe eivj th.n cara.n tou/ kuri,ou souÅ “Bene, servo buono e fedele - gli rispose il suo Signore -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo Signore”. _____________________________________________________ Il racconto riguardante l’attività del secondo servo è uguale al precedente. L’unica differenza sta nel numero dei talenti guadagnati. A questo secondo funzionario il Signore concede la stessa dignità del primo anche se il numero dei talenti ricevuti e guadagnati è differente. Non conta la quantità, ma l’impegno di aver fatto fruttificare ciò che gli era stato consegnato. Anche il secondo funzionario entra anch’egli a far parte dei beni del suo Signore, partecipando alla sua gioia. Per la seconda volta il Signore, di fronte a ciò che ha fatto il suo dipendente dichiara: bene! Come nel racconto della creazione, dove Dio ammira la sua opera (cfr. Gen 1,4.10.12.18.21.25.31), il Signore gode di ciò che è stato realizzato. Egli non ha dovuto rinunciare alla sua autorità o rango per rendersi vicino ai suoi dipendenti e permettere loro di entrare nella sua gioia, cioè accedere alla sua stessa altezza. Coloro che fanno della propria vita un dono d’amore, capaci di stabilire con gli altri rapporti di vera uguaglianza e fraternità, sperimentano la piena comunione con il Signore. E questo è molto più importante di qualunque fortuna guadagnata. Questi due funzionari possono stabilire la propria signoria non appropriandosi di ciò che appartiene all’altro ma mediante il frutto del proprio lavoro. Non c’è nulla da invidiare all’altro, nulla da togliergli, basta far fruttificare quanto si è ricevuto. Entrare nella gioia del signore significa che è finita la distinzione tra dipendenti e padroni, tutti sono signori. __________________________________________________________ 24 proselqw.n de. kai. o` to. e]n ta,lanton eivlhfw.j ei=pen\ ku,rie( e;gnwn se o[ti sklhro.j ei= a;nqrwpoj( qeri,zwn o[pou ouvk e;speiraj kai. suna,gwn o[qen ouv diesko,rpisaj( Si presentò infine colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso, ___________________________________________________________ Il terzo funzionario non si rivolge al suo Signore come gli altri due; egli non dice: “ecco (io) ho guadagnato 5/2 talenti…” ma “so che tu…”, affermando di conoscere l’altro (“ti conosco…” tipica frase di chi non ha capito l’altro). Inoltre egli è l’unico a dare una motivazione del suo operato. La differenza di vedute tra i primi due funzionari e il terzo fa porre la domanda se essi stiano parlando della stessa persona. La parola del Signore è diversamente tradotta/interpretata dai suoi servitori. L’insegnamento del racconto a questo punto mira a distinguere tra due realtà diverse e opposte: l’uomo come il servitore di Dio, oppure l’uomo come erede di Dio. I tratti finora conosciuti del protagonista della parabola sono di un signore munifico e straordinariamente generoso, che non solo regala i talenti consegnati e quelli guadagnati ai suoi funzionari ma addirittura li fa partecipi di tutto il suo capitale. Eppure l’ultimo funzionario ha un’immagine diversa e distorta di Lui, lo ritiene una persona avida e crudele che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso. La reazione del terzo funzionario che ha sotterrato il talento è dovuta a quella falsa immagine che egli ha del suo Signore, che non corrisponde però alla grande generosità sopra descritta. ___________________________________________________________ 25 kai. fobhqei.j avpelqw.n e;kruya to. ta,lanto,n sou evn th/ gh/\ i;de e;ceij to. so,nÅ ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco (lett. vedi hai il tuo), ciò che è tuo”. ____________________________________________________________ L’uomo prende tutte le precauzioni del caso. La sua paura è coerente con la visione che egli ha del suo Signore, il quale rimane sempre proprietario dei talenti. Questo funzionario è incapace di comprendere l’identità di un signore che è pronto a condividere tutti i suoi averi e anche la sua sovranità con i suoi dipendenti. Difficile cambiare questa immagine dal momento che egli dice: “io ti conosco!” Lui pensa di conoscere il suo Signore, ma sbaglia di grosso, invece gli altri due dimostrano un atteggiamento diverso: credono nella generosità del loro Signore, che li renderà felici. Secondo il diritto rabbinico chi sotterrava il denaro che gli era stato affidato non era tenuto alla restituzione o risarcimento in caso di furto (Baba Mesi‛a 42a). Il terzo funzionario non ha perduto quanto gli era stato consegnato e lo restituisce integro, ma senza frutti. L’insegnamento della parabola è che una falsa immagine di Dio può bloccare il processo di crescita della persona che ha paura di commettere errori (peccati), non rischia e quindi non fa fruttificare i doni ricevuti. Mentre i primi due funzionari parlano del talento ricevuto come di una cosa propria (“io ho guadagnato”), il terzo non lo ha mai considerato come proprio; ciò è sottolineato per ben due volte dalla ripetizione del pronome “tuo” (talento). _________________________________________________________ 26 avpokriqei.j de. o` ku,rioj auvtou/ ei=pen auvtw/\ ponhre. dou/le kai. ovknhre,( h;deij o[ti qeri,zw o[pou ouvk e;speira kai. suna,gw o[qen ouv diesko,rpisaÈ Il suo Signore gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso? _____________________________________________________ 27 e;dei se ou=n balei/n ta. avrgu,ria, mou toi/j trapezi,taij( kai. evlqw.n evgw. evkomisa,mhn a'n to. evmo.n su.n to,kwÅ Avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse. ________________________________________________________ Il Signore rimprovera questo suo dipendente chiamandolo “maligno e pigro”. Il servo è prigioniero della sua visione del Signore; questa sua visione lo induce a sbagliare e paralizza la sua crescita. Nel ripetere la descrizione fornita dal funzionario, il Signore la formula in tono interrogativo poiché egli non si riconosce in quella immagine negativa; infatti nella sua domanda il Signore omette l’espressione “uomo duro”(v.24). Proprio per questo la posizione del terzo funzionario è ancora più grave. A maggior ragione, sapendo di aver a che fare con un signore/padrone avido, avrebbe dovuto far fruttare il talento ricevuto portandolo da un banchiere. _________________________________________________________ 28 a;rate ou=n avpV auvtou/ to. ta,lanton kai. do,te tw/ e;conti ta. de,ka ta,lanta\ Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. _________________________________________________________ Il servo/funzionario non viene punito perché ha fatto qualcosa di male, ma perché non ha fatto nulla. Perché lasciare al servo un dono che non solo non è stato impiegato ma deprezzato? Questo servo è “maligno e pigro” perché si è seppellito egli stesso con il talento. Ha vissuto nel terrore nonostante il dono ricevuto. Meglio togliere quel talento che è diventato così gravoso! _________________________________________________________ 29 tw/ ga.r e;conti panti. doqh,setai kai. perisseuqh,setai( tou/ de. mh. e;contoj kai. o] e;cei avrqh,setai avpV auvtou/Å Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha verrà tolto anche quello che ha. _________________________________________________________ Questa espressione è già apparsa nel cap. 13 nel contesto della parabola dei quattro terreni (Mt 13,3-9) con cui Gesù ha iniziato il suo insegnamento sul “Regno dei Cieli”. A quanti fanno fruttare i doni ricevuti viene aumentata la capacità di produrre in una misura che non è dovuta allo sforzo dell’uomo ma alla generosità del Signore. Se è vero che colui che aveva ricevuto 5 talenti li ha raddoppiati con il suo impegno, è anche vero che la risposta del suo Signore che lo chiama a far parte di tutti i suoi averi non è proporzionata all’impegno del funzionario, ma è dovuta alla generosità del Signore. _________________________________________________________ 30 kai. to.n avcrei/on dou/lon evkba,lete eivj to. sko,toj to. evxw,teron\ evkei/ e;stai o` klauqmo.j kai. o` brugmo.j tw/n ovdo,ntwnÅ E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. _________________________________________________________ È un servo che si è ritenuto inutile, senza valore. Costui non ha capito proprio niente: rimane senza dono e senza gioia. Vivendo nella paura è rimasto chiuso nelle proprie tenebre, per questo ora viene gettato nelle tenebre esterne, dove raccoglie il frutto della sua negatività = dolore (pianto) e rabbia (stridore di denti). Poiché non ha accettato la ricchezza e la gioia, solo la collera e la pena saranno sue. La parabola dei talenti rappresenta il passaggio dalla condizione di servo alla condizione di signore. Un ponte dalla condizione umana alla gioia divina. Trattandosi del “Regno dei Cieli”, Gesù insegna che chi non collabora alla edificazione della società nuova, impiegando i doni che ha ricevuto, è un uomo fallito. Quale immagine di Dio si ricava da questo insegnamento? Un Dio che è chiamato “onnipotente” ma è onnipotente solo di un amore per il quale non vuole tutto per sé! Il suo desiderio è che l’altro possa accedere a quello che Egli è. Ma bisogna che l’uomo arrivi per sua scelta, che sia lui a voler entrare nella gioia del Signore. La parabola mostra come la vera grandezza di Dio sta nel limitare il suo potere per permettere all’altro di essere se stesso. Mentre in tutte le religioni gli dei sono gelosi della loro condizione divina, il Dio di Gesù fa che gli uomini siano “divini” come Lui (cfr. Gen 1,26-27). Riflessioni… · -(Gesù Cristo) “non ritenne per sé un tesoro geloso essere uguale aDio, ma…” (Fil 2,6) _________________________________________________ · -Fa parte della Signoria di Dio essere magnanime e aprirsi al rischio dei limiti, condividendo con l’uomo il suo tesoro. Inizia così anche per Dio un’avventura, intonando per l’uomo un canto di libertà e dandogli uno slancio per continuare la sinfonia comune. _________________________________________________ · -E l’uomo impara ad apprezzarsi, a stimarsi e a stimare (il dono della vita, dell’intelligenza, della passionalità, del vigore, dei sentimenti…) i talenti avuti in dono, e riesce a dire di Dio “…ti riconosco in me”, e gode della vita e per ogni germe che gli pulsa intorno. _________________________________________________ · -E Dio, da buon pedagogo, si ritira, si fa da parte, guarda da lontano e gode delle conquiste dell’uomo, e tra queste, della sua libertà. _________________________________________________ · -Poi si rincontrano e si intrecciano parole di gratitudine e di inviti a banchetti di gioia. _________________________________________________ · -Ma non sempre tutti sono pronti all’appuntamento inatteso della felicità/libertà, e tanti riescono solo a recitare sequenze noiose: abbiamo avuto paura, non abbiamo osato, e perciò restano prigionieri e brancolano nel buio. __________________________________________________ Linee interpretative del Vangelo domenicale elaborate nell’incontro settimanale del lunedì dal gruppo della Comunità de “Il Filo” insieme con P. Gennaro Lamuro resp. del Servizio Animazione Biblica della Diocesi di Napoli.

Il gruppo si avvale dei seguenti supporti: - Nuovo Testamento interlineare Greco-Latino-Italiano, Ed. San Paolo. - Max Zerwick S.J., Analysis Philologica Novi Testamenti Graeci, Romae, Pont. Inst. Bibl., 1960. - Max Zerwick S.J.-Mary Grosvenor, A grammatical Analysis of the Greek New Testament, Rome, Biblical Institute Press, 1996. - La preziosissima produzione esegetico-pastorale del Centro Studi Biblici “G. Vannucci” di Montefano (MC),

n.b.: Il testo della traduzione in italiano del Nuovo Testamento è tratto da: - La Sacra Bibbia, Roma, edizione CEI, 2008

martedì 11 novembre 2008





              Incontri di Spiritualità per Diaconi e aspiranti





Padre Giulio Michelini


Anno 2010-2011








Spiritualità: lezione N°1 del 10 ottobre 2010

Monteripido - Anno 2010-2011







Il cammino di preparazione al diaconato tiene conto di due luci: quella che riguarda il servizio ecclesiale e quello che riguarda la vita familiare che è il primo sacramento a cui voi siete legati.

Il primo anno abbiamo insistito sul servizio e sull'obbedienza (Mosè), l'anno passato abbiamo insistito sulla coppia e la vita familiare.

Ma questo di spiritualità non è l'unica proposta formativa, perchè sapete che avete un altro cammino da fare che è quello della preparazione al servizio liturgico. Ieri ero a Sapri perchè un mio confratello, Massimiliano, ha ricevuto l'ordinazione diaconale e ha ricevuto per prima cosa, subito dopo la consacrazione, il libro dei Vangeli, primo servizio del diacono che riceve la Parola e deve poi ridonarla, poi ha ricevuto i vasi sacri, calice e patena, e dunque è chiaro che il diacono svolge il servizio liturgico e poi assieme a questi c'è la carità. Questo cammino si svolge qui a Monteripido secondo il calendario che vi darò. L'unica novità è che i nostri incontri ci saranno la domenica pomeriggio alle ore 15,30, mentre quelli di liturgia con Don Antonello ci saranno il sabato sempre alle 15,30.

Su che cosa verterà il corso di spiritualità di questo anno? Il diacono discepolo nella Chiesa.

Mi sembra un tema importante quello del discepolato, perchè il discepolato è una categoria inclusiva e non esclusiva e quindi è condiviso anche dal coniuge.

Questo percorso ha una dimensione condivisa nella coppia, ma ha anche una dimensione personale. Il tema di questo primo incontro è: il discepolo di Gesù come colui che segue e che sta con il maestro. Seguirà Maria prima e perfetta discepola dal Signore, poi il diacono dalle lettere pastorali, poi il discepolo e dei discepoli, il discepolo particolare che è Pietro e così via...

Credo che questo tema del discepolato possa aiutarvi perchè tutti corriamo un rischio, io per primo. Io insegno da nove anni Sacra Scrittura e il mio compito è soprattutto quello di stare davanti alla Parola del Signore cercando di capirla e di spiegarla e il mio rischio è quello di mettermi davanti a Gesù, cioè di precedere la Parola e perdere la dimensione del Discepolo.

Perchè dico questo? Il diacono può pensare di essere arrivato e può pensare di essere esente dall'essere discepolo.

La prima dimensione del discepolo è quella dell'essere l'alunno , il discepolo è colui che impara da un maestro che è Cristo. Io parlo in maniera autobiografica: quando uno sta in cattedra perchè ha un compito ed esercita un ruolo in qualche modo di governo in un gruppo, come quello che ora sto svolgendo per incarico del vescovo e di Don Pietro che mi ha chiesto di fare questo servizio, non deve mai dimenticare quello che stiamo dicendo ora: stare in cattedra nella Chiesa comporta davvero lo sforzo, che si deve fare da parte di tutti noi che siamo in prima linea, di ricordare quella che è la nostra vera posizione. La nostra posizione è quella dove state tutti voi, al mio posto c'è Gesù, lui è il maestro, noi tutti siamo suoi discepoli. Questa sottolineatura è quanto mai opportuna, perchè l'acquisizione di un ministero e l'investitura di questo compito può comportare anche il vantare dei diritti e dei privilegi. Al termine dell'ordinazione a cui ho partecipato ieri, ricordo che, quando il nuovo diacono ha ricevuto la stola e la dalmatica, gli applausi, la gloria e tutte queste belle tradizioni e dovuti segni di gioia e di partecipazione della Chiesa, potrebbero anche generarsi sentimenti di autoglorificazione e di presunzione in colui che ha ricevuto questi segni. Essere discepolo significa ricordare sempre che tu sei discepolo in quanto alunno. Il tema, che amplifico e aggiusto per le nostre esigenze, è tratto da un libro molto bello di Mario Masini, che è un bravo biblista, che si intitola "Spiritualità biblica" edito da Paoline, che ha un capitolo che si chiama "Discepoli di Gesù", una lettura spirituale della Bibbia per cogliere alcuni aspetti spirituali di questi temi biblici. Questo capitolo dei discepoli di Gesù inizia proprio così:

"Come spesso avviene, un'escursione nella filologia, cioè nel significato storico della parola, aiuta a meglio comprendere ciò che i termini significano e insegnano. Infatti i termini fissano un'esperienza. Il termine greco usato nel N.T., usato abitualmente, per designare il discepolo è "matetes". Il verbo è "mantano" che significa "apprendere", "imparare". Il discepolo è colui che deve imparare, apprendere sempre qualcosa.

Alcuni esegeti hanno notato che il primo vangelo, quello di Matteo, sia il vangelo del discepolo nella Chiesa perchè in greco "Mattaios" è molto vicino a "matetes", c'è un'assonanza tra i due termini e il Vangelo del discepolo, il nome di Matteo ricorda questo. Anche perchè il Vangelo di Matteo, unico tra gli altri, è quello che termina con Gesù che dice: "Fate discepoli tutte le genti" Matteo 28. Il discepolo è un apprendista, è colui che deve imparare il mestiere quando frequenta una bottega, dice Martini, se frequenta una scuola è uno studente. Quindi la figura del discepolo, anzitutto, prima di essere colui che segue, questo lo vedremo dopo, la figura del Discepolo è quello dell'alunno che acquisisce da un maestro determinate conoscenze. Il discepolo non è un'autodidatta, non impara da solo, perchè c'è la figura dell'autodidatta, ci sono esperienze rabbiniche, ma sono casi unici, perchè la norma è stare con un maestro. Proprio per capire questo e dire che cosa implica la relazione con la sposa questo tipo di discepolato e sottolineare che il discepolo è anzitutto colui che si mette alla scuola, dobbiamo ricordare che, nel mondo giudaico, cioè nel mondo dove Gesù è vissuto e ha avuto discepoli, in questo mondo, già con Gesù e prima di lui, apprendere la Torah significava apprenderla da un maestro. Il discepolo si poneva alla scuola di un rabbi e assorbiva avidamente i suoi insegnamenti. E' vero che i primi rudimenti della Torah si imparavano in famiglia, come dice il libro del Deuteronomio, (Dt 6: "Queste parole li insegnerai ai tuoi figli"), attraverso questa comunicazione, che funziona di più, è il papà che trasmette la fede con l'insegnamento e con la vita, ma poi bisogna andare da un rabbino. Oggi molti si domandano se Gesù abbia potuto frequentare, anche Egli a suo tempo, una scuola organizzata presso un rabbino per approfondire la Torah. E' molto probabile questa ipotesi perchè ci sono accanto alla sinagoga, per esempio a Cafarnao, delle scuole, delle case di studio, cioè la Bet-midrash, dove il rabbino insegna la Torah.

Molti pensano così, altri pensano che la sua formazione l'abbia avuta da Giovanni Battista che, essendo di famiglia sacerdotale, ha sicuramente avuto un'educazione alla Torah speciale. E' chiaro che nel N. T. Gesù è chiamato "rabbi", cioè "maestro", e dunque il "rabbi" è colui che dava gli insegnamenti che venivano assorbiti con avidità dallo studente, il quale si metteva davvero ai suoi piedi per imparare quello che il maestro diceva.

In genere il maestro doveva essere uno solo. " Uno solo è il maestro" dice la Scrittura. Nella tradizione giudaica chi studia da più maestri è visto negativamente. Da noi è un po' il contrario; per noi chi ha avuto la possibilità di avere più approcci, chi ha avuto la possibilità di frequentare più università, più corsi di laurea è visto come un arricchimento ulteriore e quindi è visto positivamente. Invece, secondo un detto rabbinico, colui che ha avuto un solo maestro è come colui che, possedendo un unico campo, vi semina in una parte frumento e in un'altra parte olive, in un'altra querce, cioè tutto quello che gli serve e chi agisce così si troverà felice e pieno di benedizione. Invece chi studia con due o tre maestri è come colui che, avendo più campi, pianterà in uno oliveti, in un altro grano.... e si troverà come colui che si perderà tra le sue terre e sarà privo di felicità e benedizione. Ecco perchè chi ha Gesù come maestro ha questo solo maestro e Gesù dà la possibilità di imparare in modo intellettuale e completo.

Sottolineiamo questi due aspetti. Parto dal secondo: l'insegnamento che si intende, nel rapporto tra discepolo e maestro, non è solo un insegnamento teorico, ma pratico, che ha a che fare con lo stare con il maestro e concretamente imparando da lui, condividendo la vita con il maestro, non soltanto quando segue le sue lezioni. Questo lo capiamo tutti, perchè una cosa è entrare in un'aula per una lezione e avere la pazienza di ascoltarla e anche la costanza di stare attenti, ma se il professore se ne va allo squillare del campanello, la relazione si ferma lì dentro ed è semplicemente una relazione fondata sull'obbligo, sullo stipendio e sul dover dire le trame da parte dello studente. Invece quando si crea una relazione diversa con la quale ci si lega anche affettivamente, non soltanto perchè ti dà delle nozioni, ma perchè è il tuo maestro, allora la relazione cambia. Ed ecco perchè la pretesa di Gesù che questo maestro venga poi seguito. Su questo insisterò dopo, se avete letto il libro di Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, il papa dedica la prima parte della sua analisi del rapporto tra il giudaismo e il cristianesimo evidenziando che il maestro Gesù ha delle pretese nei confronti dei discepoli che, secondo questa impostazione, non avevano nel guidaismo. Il maestro è colui che ha con il suo discepolo una familiarità che viene da un'esperienza comune. Questo è interessante perchè sul piano linguistico la parola che indica il maestro e l'alunno derivano dalla stessa radice che è "lamarte", Talmud è invece l'insegnamento. Quindi c'è una relazione che lega il maestro al discepolo che non è fatta solo di insegnamenti, ma di una vita che viene comunicata.

Essere discepolo non vuol dire apprendere nozioni, ma fare esperienza. Questo porta a noi delle conseguenze pratiche: il cammino che fate in maniera del tutto speciale nella Chiesa per diventare diaconi discepoli nella Chiesa, non deve farvi mai presumere diaconi senza essere discepoli in questa visione di condivisione con il maestro. Il discepolo con il suo maestro ha anche un obbligo di riconoscenza e c'è un detto molto bello della tradizione giudaica del III secolo dove Rabbi Gioshuà insegnava dicendo: "Un discepolo deve rendere al suo maestro tutti i servizi che uno schiavo deve rendere al suo padrone, eccetto quello di slegargli i sandali". Infatti questo servizio, che era proprio degli schiavi, l'avrebbe fatto sentire come uno schiavo. Il discepolo non è uno schiavo, ma un uomo libero. Quindi il discepolo deve essere disponibile a fare per il maestro tutto quello che farebbe lo schiavo, tranne quello di slegargli i sandali.

Forse é da questo che trae origine quella Parola nel vangelo di Giovanni dove Gesù dice ai suoi discepoli: "Voi non siete servi", ma "siete amici". C'è una differenza: anche se i discepoli avranno fatto a Gesù tutto quello che dovevano, lo avranno servito, lo avranno aiutato, avranno comunque verso di lui un debito di riconoscenza. Pensate che nella tradizione giudaica il rabbino teneva i suoi discepoli nella sua casa fino al medioevo. Abbiamo a questo proposito l'esempio di Rashi che aveva la sua casa a Pois. Rashi era il più grande esegeta Ebraico, il più grande studioso della torah del medio evo, di pochi anni precedente a san Francesco, lui aveva a casa sua un centinaio di discepoli a cui doveva dar da mangiare, ma loro lo aiutavano a coltivare la vigna perchè lui aveva un bel vigneto e si guadagnava da vivere in questo modo. Dunque la relazione che possiamo immaginare ci fosse tra discepoli e maestro nell'antichità si conserva anche nel giudaismo medioevale al punto che i discepoli erano tenuti anch'essi a stare in casa e ed aiutare il proprio maestro e quindi pagarsi gli studi. Se vedete il film Yentl con Barbara Streisand, potrete capire che cosa volesse dire stare con un maestro di talmud. Ma naturalmente essere discepolo in quanto alunno, studente, sotto questo punto di vista significa impegnarsi a conoscere la parola del proprio maestro e a capire la torah. In fondo perchè i discepoli andavano con il proprio maestro? Perchè volevano questo da lui: volevano imparare a conoscere la Torah, ed è qui che io insisto con quella immagine che vi ho già annunciato e che vi ricordo: il gesto che durante l'ordinazione diaconale, subito dopo la consacrazione, il gesto con il quale il Vescovo dà il libro dei Vangeli al Diacono, dice proprio questo, di un libro che deve essere continuamente ricevuto, che non può essere chiuso, pena farlo morire, ma che deve essere letto, studiato, imparato come si imparava con Gesù ad interpretare la Torah.

Quindi dico due cose, la prima che tratta la tradizione Gesuana e cioè che Gesù insegna ai suoi discepoli nel discorso della montagna. (Mt 5, 1-2) C'è un incipit che è molto caratteristico della tradizione giudaica: Gesù sale sul monte, si mette a sedere, i discepoli si avvicinano a Lui e lui si mise a parlare e insegnava loro dicendo.... Ecco questo è il tipico atteggiamento del Rabbi: è seduto e insegna mentre i discepoli ascoltano seduti accanto a Lui e ascoltano. E che cosa fa Gesù? Fa quello che ciascun Rabbi avrebbe fatto. Il vangelo di Matteo sottolinea molto questa dimensione di Gesù maestro e sopratutto di colui che interpreta la Torah e la spiega, e dice per esempio nelle cosiddette antitesi: "Vi fu detto, ora (io traduco così) ecco ora io vi dico così" (che cosa significa questa Torah? Significa così.). Cosa fa Gesù? Spiega la Parola e i suoi discepoli la capiscono e dunque imparano a conoscere la parola grazie alla sua spiegazione. Il libro viene ricevuto non solo perchè è chiuso diremmo, come quando si riceve un pacchetto, un regalo ed è chiuso, impacchettato, Gesù, quando dà questo dono, lo dà e lo apre, lo spiega. Guai se fosse soltanto un libro chiuso che viene preso e tenuto sul comodino o sul cassetto, ma ancora qui c'è la sottolineatura di una relazione di chi continuamente te lo apre e tu lo ricevi e capisci quello che il Maestro ti dice. Allora la domanda sorge spontanea sopratutto per i Diaconi che sono già ordinati, già "arrivati", ma anche per quelli che sono vicini al cammino di consacrazione. Cioè mi posso chiedere: "Adesso dove ricevo io questo libro? Prima avevo la scuola di teologia, avevo gli incontri, avevo delle tappe dentro il "tunnel" (gli psicologi che hanno studiato noi seminaristi hanno trovato questa categoria del "tunnel" per dire di questo percorso di formazione presbiterale che è molto più serrato di quello che voi fate, cammino dove si è protetti, perchè questo tunnel, per 5 o 6 anni ha una serie di tappe, di passaggi, di continue verifiche di apprendimento, solo nell'istituto teologico si hanno circa 80 esami!) Ma quando si esce dal tunnel? Lì c'è il problema, quando si esce dal tunnel crollano le vocazioni perchè sono finite le verifiche, perchè uno si sente sacerdote, perchè uno pensa di poter fare quello che prima non faceva, ma sopratutto perchè uno si sente di non dover più imparare nulla e di non dover essere più discepolo! Allora la domanda è per me, ma anche per noi tutti, non è che il mio essere discepolo è semplicemente in funzione di acquisire qualcosa e poi sentirmi maestro?

Concludo con un'idea, è difficile mettere l'idea di Gesù davanti alla propria. Questo vuol dire accogliere che il tuo Maestro abbia ragione anche quando tu pensi in modo diverso. E' vero che Gesù ha un detto molto importante in cui pare che Lui abbia capito questa dinamica e spinga i propri discepoli ad andare avanti con coraggio e dice: "il discepolo poi che è ben preparato diventerà anche come il proprio maestro" e dunque si tratta di un atto di fiducia, Gesù dà l'autorità ai suoi. Non dice come quei maestri che dicono, imparate, studiate ma tanto non capirete mai! Io avevo al Biblico un professore che diceva. "spiegherò una cosa, ma voi non la capirete..." il giorno dopo diceva: "oggi spiegherò delle cose, ma forse sono troppo difficili per voi.. " il terzo giorno non ci sono più andato ed ho cambiato esame. Gesù non dice questo, ci incoraggia, per noi il rischio è quello di pensare di mettersi al posto suo e di aver esaurito, con l'ordinazione, con la fine del cammino, il processo che ti rende discepolo.

Volevo insistere, e concludo questa parte, sulla dimensione intellettuale e anche sulla relazione che la sposa ha con il proprio marito impegnato negli studi. Qui mi avvalgo, come spesso accade, perchè è un molto molto bello e perchè apprendiamo molte cose e in particolare quelle che riguardano Gesù, mi giova parlarvi di un famoso Rabbino il quale non era molto istruito, però, improvvisamente, ad età molto avanzata, anche se non sapeva leggere, cominciò ad appassionarsi della Torah e a diventare talmente bravo che gli succede questo. A quaranta anni comincia a studiare la Torah, dunque nessuno pensi che sia mai tardi. Probabilmente lui non sapeva nemmeno leggere il testo. E' rabbi Akiba, uno dei rabbi del secondo secolo, poi ha combinato un mezzo disastro perchè Rabbi Akiba ha riconosciuto un messia che non era il messia, siamo ai tempi della seconda rivolta giudaica, lui si sbaglia e lo incorona, lo investe, lo unge messia (Gesù c'era già stato e non era stato accolto da tutti). Akiba era un pastore e guidava il gregge di un signore molto ricco che aveva una figlia molto bella, lei si innamora di lui e vedendo che lui (Rabbi Akiba) era molto umile e distinto gli fece questa proposta: "Ma se io ti sposassi, tu andresti a studiare?", quindi è lei, la sposa futura, la ragione dello studio di Rabbi Akiba che era un pastore fino a 40 anni. Lui aderì alla richiesta della ragazza e si fidanzarono. Questa giovane donna aveva capito che suo padre non avrebbe mai accettato come suo genero un uomo che non fosse alla sua altezza. Allora lui per mezzo di lei andò a studiare, però il padre lo seppe, cacciò la figlia dalla propria casa e la escluse dall'eredità perchè aveva sposato un pastore. La figlia però si sposò con Akiba e gli disse: "Ora va' a studiare". Egli infatti per dodici anni frequentò le scuole di Rabbi Eliezer e di Rabbi Joshua e alla fine di quel periodo tornò a casa, dove lo aspettava la moglie, seguito da una schiera di dodicimila studenti. Anche sua moglie volle andargli incontro, e le vicine le dicevano: "Fatti prestare un bel vestito perchè sta tornando tuo marito con dodicimila talmudin (studenti)" e lei rispondeva: "Il giusto conosce l'anima della sua bestia (Pr 12,10)", cioè dice: "non ho bisogno di vestirmi bene!".

Quando essa gli giunse vicino, si inchinò a terra e gli baciò i piedi. I discepoli tentarono di allontanarla, perchè era una donna, e Rabbi Akiba disse a loro: "Lasciatela, quello che io sono e quello che voi siete è a lei che lo dobbiamo". Quando il padre di lei seppe che un personaggio ragguardevole era arrivato con dodicimila discepoli pensò: "Voglio andare da lui, voglio sapere chi è", venne infatti e Rabbi Akiba gli disse: "Se tu avessi saputo che il marito di tua figlia sarebbe stato un uomo illustre l'avresti esclusa ugualmente dall'eredità? Ebbene sono io quell' uomo!". Allora il padre di sua moglie si prostrò a terra, baciò Rabbi Akiba e gli donò metà delle sue ricchezze. E poi la tradizione dice ancora: vi sono varie tradizioni su questa figura, forse non tutte storiche, ma si sottolinea l'amore per la Torah, soprattutto perchè si ripete che lui non aveva mai studiato fino a 40 anni e si sottolinea il fatto che ad un certo punto la moglie lo rimanda a studiare la Torah.

Volevo portarvi questo esempio molto simpatico e molto bello perché mi sembra di capire che l'amore per la Torah che deve nascere e l'amore per Dio, l'amore per Gesù e per la sua Parola che nasce nel Diacono non debba mai essere visto come concorrenziale da parte della sposa, anzi questo esempio concreto dice che la sposa quanto più sarà capace di aiutare il marito ad innamorarsi della Parola di Dio tanto più ne riceverà in contraccambio: fino a 12000 studenti che onoreranno il proprio marito e dunque anche lei. Poi dice anche che i due amori non sono tra di loro inconciliabili. Nella tradizione rabbinica vi dico che è rarissima la vita consacrata per un celibe, abbiamo delle eccezioni tra gli Esseni (ce lo dice Giuseppe Flavio), abbiamo come esempio Gesù, abbiamo Lazzaro, Marta e Maria (che qualcuno cerca di interpretare come appartenenti agli Esseni, proprio perchè non sposati, nel IV vangelo c'è la possibilità di trovare dei punti di contatto con gli Esseni), poi nella tradizione Giudaica abbiamo una testimonianza di un rabbino a cui è stato permesso di non sposarsi, però era uno stato unico perchè per l'ordinazione rabbinica bisogna essere sposati, bisogna essere capaci di generare, bisogna essere uomini e bisogna avere la possibilità di portare avanti una famiglia, altrimenti non sei un Rabbi, non puoi essere un maestro, che cosa insegni? Ma nella tradizione giudaica c'è stato un Rabbi che ha detto: "

Io amo la Torah più di una donna!" e quindi gli è stato permesso di poter essere un maestro. C'è solo quest'unico caso che si ricordi, scandaloso direi. Anche Gesù è così, anche Gesù e la sua vita celibataria ci dicono che Lui ha amato Dio e questo amore è stato davvero al primo posto, è stato per lui totalizzante. Perchè vi dico questo? Perchè si parla di questo Rabbi registrato nel Talmud, si parla di Gesù di Nazarth, si parla di qualche Esseno, ma poi tutta la tradizione, anche la tradizione neotestamentaria, ci dice che Pietro e gli Apostoli, Paolo stesso doveva essere sposato e dunque vuol dire che è possibile vivere insieme e non in modo concorrenziale l'amore per Dio e per la sua Parola, amarla, studiarla e non togliere nulla alla propria sposa. Mi sembra che Rabbi Akiba ci insegni proprio questo, ci dice che si possono conciliare queste due cose, che il tempo per la Parola deve essere trovato, perchè se non ti innamori della Parola di Dio, e rimani semplicemente innamorato della sposa, allora sarai un bravo padre di famiglia, ma non puoi anche essere Diacono.

Volevo dirvi che la prossima volta vi darò le fotocopie di questo primo incontro, quattro pagine che ho elaborato per questo incontro.

Ne diviene poi che, chi è discepolo, segue Gesù, quindi l'alunno che segue e sta col maestro.

Concludo con questa seconda immagine: seguire Gesù potrebbe sembrare stare da questa parte della cattedra, dalla parte della cattedra, invece è necessario stare sempre ai piedi di Gesù come maestro e allo stesso modo deve seguire Gesù e mai mettersi davanti a lui. Qui ricordate tutti la scena molto importante che avviene subito dopo la professione di Pietro quando Pietro, per grazia di Dio, secondo Matteo, riconosce che Gesù è il Messia e il Figlio del Dio vivente. Gesù annuncia per la prima volta (delle tre) la sua passione, e ricordate (Mc 8, 32) Gesù viene preso in disparte dal suo discepolo (dedicheremo a Pietro una meditazione particolare perchè Pietro è un discepolo particolare che poi diventa il maestro da seguire), lo rimprovera. Qui Marco usa dei segnali molto importanti per quanto riguarda la prossemica cioè lo studio delle distanze, una parte della linguistica che si occupa del linguaggio anche dei corpi. Gesù si volta a guardare i Discepoli, rimprovera Pietro e gli dice: "Vieni dietro a me!". Qui è bene che sia chiaro perchè non è "vade retro, satana!" allontanati da me", perchè Mc 8,32 nella versione precedente veniva tradotto dalla CEI con "allontanati da me satana". Cosa vuol dire? Vai via! Come quando i Santi, secondo l'agiografia medievale vedono il demonio gli dicono "vai via, allontanati satana!", ma questa traduzione era alquanto imprecisa, infatti è stata corretta. San Gerolamo traduce "upage opiso mu" con vade retro, cioè vieni retro, ma che è stato inteso poi nelle lingue volgari con: "vattene via", infatti la CEI ora traduce: "va dietro a me", forse sarebbe stato meglio dire "vieni dietro me". Comunque il centro di questo discorso è la preposizione otis che vuol dire dietro, e viene usata da Gesù quando dice. chiunque vuol venire dietro, e quindi il discepolo è colui che segue e non è mai colui che si mette davanti pensando di poter dire al maestro quello che deve fare.

E' chiaro che qui Pietro non viene cacciato da Gesù, anche se è satana, anche se lo ha tentato, anche se vuole in questo modo dividerlo dal progetto del Padre. Assatan è l'avversario in ebraico, anche se Pietro in questo momento sta diventando suo avversario, Gesù non gli dice "vattene", Gesù non lo dice a nessuno, nemmeno a Giuda, anzi lo ha chiamato amico, non gli dice "vai via", gli dice però: "Mettiti dietro". Questa preposizione è molto importante, viene ancora tradotta male dalla CEI in un altro passo, purtroppo in Giovanni quando il Battista dice "viene uno dopo di me", ebbene io tradurrò per la traduzione che sto facendo: "viene uno dietro a me", perchè opiso ha sopratutto il senso spaziale, e questo è uno degli elementi più importanti che abbiamo per dire che Gesù è stato un discepolo di Giovanni: viene uno dietro a me che è più grande di me! Sentite, opiso non vuol dire "dopo", ma come qui, "dietro". Allora Gesù dice a Pietro di mettersi dietro, perchè davanti va lui, Gesù si volta e dice, davanti vado io! Qui Gesù ha avuto un coraggio molto importante: quello di ristabilire la relazione corretta tra Lui e Pietro.

Infine il discepolo sta con il maestro non solo per imparare, ma proprio fino in fondo, fino alla croce. In questo senso i vangeli valorizzano molto il discepolo in quanto donna, perchè sotto la croce, almeno secondo i sinottici, c'erano sotto le donne. Solo qualche decennio dopo il Vangelo di Giovanni corregge il tiro e dice che sotto la croce c'era anche il discepolo che Gesù amava.

Bene, siamo esortati, da questo che abbiamo detto, essere diacono o volerlo diventare ha come presupposto ineludibile e come caratteristica fondamentale quello di stare dietro Gesù, alunno di Gesù, stando con Lui fino alla fine.




Incontri di Spiritualità per Diaconi e aspiranti










Padre Giulio Michelini



Anno 2009-2010
Spiritualità 2° anno: 1° lezione






8 ottobre 2009



Quest’anno vogliamo insistere sul duplice ministero del diacono che è ministero ordinato, ma coniugale. A noi sacerdoti tutto questo è abbastanza estraneo, almeno quello della dimensione coniugale, quindi ci aiuteremo a vicenda. Per questo il tema dei ritiri cercherà di vertere sul battesimo vissuto in queste due dimensioni: quello della consacrazione, della diaconia, del servizio specifico dell’uomo della famiglia che riceve l’ordine sacro però nella forma coniugale e che quindi prevede, insieme a questa, la dimensione della diaconia della donna.

Per andare nel concreto, cercheremo di recuperare questa dimensione attraverso le storie nella Parola di Dio.

Iniziamo dalla prima coppia della Bibbia che vive la diaconia del servizio. Non ho trovato letteratura a proposito, mi assumo io la responsabilità, ci avvarremo anche della tradizione e interpretazione giudaica, quella che sempre di più ha scavato nella Parola, oltre che di quella cristiana. Sentitevi autorizzati, anzi invitati a dirmi quello che risuona nella vostra esperienza di coppia.

Prenderemo il testo di Genesi 12, della nuova versione CEI: l’attenzione che dobbiamo mettere nel rileggere questo testo a noi noto, è quello di vedere la dimensione del rapporto non solo della vocazione di Abramo , ma anche quello della presenza di Sara. Arriveremo al versetto 20 e già potremo dividere questo testo in due parti molto chiare:

- da 1 a 9 c’è la vocazione e il porre la tenda nel Negheb, in quel deserto che si trova a sud di Gerusalemme, tra Gerusalemme e il Sinai;

- quella dal versetto 10 al 20, dove la figura di Sara diventerà più importante e cioè quello in cui si dice che ci fu una carestia (rahav) in cui Sarài, “i” è il suffisso che significa l’aggettivo possessivo, quindi “mia” (Sarai= mia principessa) e poi quel momento grave ed importante in cui Sarai non sposa di Abramo, ma sorella di Abramo ceduta al faraone.



Il Signore disse ad Abram:

«Vàttene dalla tua terra, dalla tua parentela

e dalla casa di tuo padre,

verso la terra che io ti indicherò.

2Farò di te una grande nazione

e ti benedirò,

renderò grande il tuo nome

e possa tu essere una benedizione.

3Benedirò coloro che ti benediranno

e coloro che ti malediranno maledirò

e in te si diranno benedette

tutte le famiglie della terra».



4Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore, e con lui partì Lot. Abram aveva settantacinque anni quando lasciò Carran. 5Abram prese la moglie Sarai, e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che avevano acquistati in Carran e tutte le persone che lì si erano procurate e si incamminarono verso la terra di Canaan. Arrivarono al paese di Canaan 6e Abram attraversò il paese fino alla località di Sichem, presso la Quercia di More. Nel paese si trovavano allora i Cananei.

7Il Signore apparve ad Abram e gli disse: «Alla tua discendenza io darò questa terra». Allora Abram costruì in quel posto un altare al Signore che gli era apparso. 8Di là passò sulle montagne a oriente di Betel e piantò la tenda, avendo Betel ad occidente e Ai ad oriente. Lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore. 9Poi Abram levò la tenda per andare ad accamparsi nel Negheb.



10Venne una carestia nella terra e Abram scese in Egitto per soggiornarvi, perché la carestia gravava su quella terra.

11Ma, quando fu sul punto di entrare in Egitto, disse alla moglie Sarai: «Vedi, io so che tu sei donna di aspetto avvenente. 12Quando gli Egiziani ti vedranno, penseranno: Costei è sua moglie, e mi uccideranno, mentre lasceranno te in vita. 13Dì dunque che tu sei mia sorella, perché io sia trattato bene per causa tua e io viva grazie a te».

14 Quando Abram arrivò in Egitto, gli Egiziani videro che la donna era molto avvenente. 15La osservarono gli ufficiali del faraone e ne fecero le lodi al faraone; così la donna fu presa e condotta nella casa del faraone. 16A causa di lei, egli trattò bene Abram, che ricevette greggi e armenti e asini, schiavi e schiave, asine e cammelli. 17Ma il Signore colpì il faraone e la sua casa con grandi calamità, per il fatto di Sarai, moglie di Abram. 18Allora il faraone convocò Abram e gli disse: «Che mi hai fatto? Perché non mi hai dichiarato che era tua moglie? 19Perché hai detto: E` mia sorella, così che io me la sono presa in moglie? E ora eccoti tua moglie: prendila e vàttene!». 20Poi il faraone diede disposizione su di lui ad alcuni uomini che lo accompagnarono fuori della frontiera insieme con la moglie e tutti i suoi averi.



La prima resistenza che abbiamo è quella nota a tutti: conosciamo già queste parole e con difficoltà riusciamo a cogliere la novità di queste parole, che sta in questo: per la prima volta la vocazione non viene offerta solo ad uomo, Abramo, ma viene offerta anche a Sarai, sua moglie. Abramo prende Sarai sua moglie e suo nipote Lot e tutti devono partire.

Questa partenza è solo apparentemente la partenza di un’unica persona, certo la vocazione di Abramo è una vocazione di un grande valore, perché Abramo noi ce lo raffiguriamo come un uomo che sceglie da solo di divenire il vero adoratore di Dio. Abramo è un uomo che aveva un padre, Terach, che, come professione, costruiva e vendeva idoli. Quindi Abramo cresce e vive in questo contesto.

Pertanto Abramo è colui che per primo, con una grossa decisione e perché ha questa vocazione personale, parte, esce e se ne va. Questa è la chiave di lettura che dà Paolo quando, nel cap 4 della lettera ai Romani, insiste molto sulla sua fede. Così anche nella lettera agli Ebrei , dove in verità si parla anche di Sarai, ma l’importanza è vista in base alla scelta personale di Abramo, perché l’imperativo è rivolto tutto ad Abramo: “Vattene dalla tua terra”.

Si tratta di una vocazione che implica che egli se ne deve andare con tutto quello che ha. C’è qualcosa di strano in questo verbo “vattene” e soprattutto in una particella che ha in sé e che altre volte non c’è: si tratta di una normale formula di comando che è quello che viene rivolta ad altri profeti: “Alzati” “va”….e che ha come risposta un verbo che indica l’ “alzarsi”, l’ “andare”, il “fare”. Però oltre a questo “vai” il verbo è hallahc, il sostantivo è hallahà=morale (il modo di camminare, cioè il modo di vivere che vuol dire il modo di camminare e di vivere).Nel libro di Tobia, il vecchio Tobi ricordate che dice “io camminavo sulle vie della giustizia, io volevo vivere come un giusto. Ricordate il salmo 1 “Beato l’uomo che cammina, perciò che vive, nella strada del Signore”.

Quindi “lech” vuol dire “vai”, colui che cammina, ma non c’è solo Lech ( vai verso)-, ma si aggiunge la particella “ha”( te stesso), ossia “lech- ha” questa particella che è al dativo che non viene tradotta. Io qui ho una traduzione del Pauth dice “vai da solo”, secondo alcuni sottolineerebbe la chiamata personale, certo un viaggio è sempre una sfida personale. Invece nella tradizione degli cassidim , questi sapienti dell’est europeo appartenuti all’ebraismo questa espressione viene tradotta: “vai verso le tue radici”, e che dovrebbe essere tradotta “verso te stesso”, forse “vai dentro di te”, forse per parlare di un viaggio che non è solo fisico, ma di un viaggio interiore, come ogni vocazione, un andare verso la verità.

Rasci, questo grande commentatore e rabbino medioevale, che abbiamo trovato anche l’anno passato, traduce “vai da te stesso” “vai verso te stesso per il tuo bene”. Non c’è il verbo “uscire”, sebbene l’ebraico conosca bene questo verbo che usa frequentemente nel libro dell’esodo, qui è diverso “vai verso te stesso, verso la verità”, si tratta quindi non di un viaggio da Carran verso Canaan, ma di un viaggio che comporta, come ogni viaggio, come ogni esperienza di vocazione, un andare verso la verità di se stesso e vedremo che Abramo va verso Sarai. Questo ci aiuta a risolvere la questione già posta prima , perché noi sappiamo che Abramo era già partito. Quando?

Questo si coglie dalla fine del capitolo 11, quello che precede la vocazione di Abramo, dove si dice che la famiglia di Abramo aveva già compiuto una migrazione, erano venuti da Ur a Carran. Abramo appartiene ad una famiglia dove la migrazione era la normalità, non è stata la prima, quella da Ur a Carran un’uscita traumatica. Qui ora quello che serve aggiungere e capire e che quest’ultima uscita comporta uscire dalla terra, è un lasciare la propria famiglia d’origine, un lasciare la Bet, la casa, il padre, uno sradicarsi per andare verso se stesso e verso la moglie per poter incontrare Dio ed essere il bene di tutte le famiglie della terra.

Allora abbiamo messo in evidenza due cose:

- 1) non si tratta di un’uscita dove Abramo è da solo e lo diremo meglio adesso,

- 2) ma si tratta di un viaggio che è un “viaggiare” che è un itinerario spirituale di crescita, di fede, di prova, di incontro con Dio, ma soprattutto di incontro con Sarai, la moglie.

Ricordate che Abramo è ricordato nella tradizione giudaica per avere superato 10 prove, un po’ come Ercole. Non è estraneo per noi cristiani il fatto che Gesù ha dovuto, prima di iniziare la sua missione, affrontare le prove del deserto.

Noi tutti abbiamo in mente il viaggio di Ulisse, viaggio che lui fa da solo, mentre la moglie Penelope lo aspetta, facendo e disfacendo la tela, potremo dire aspettando passivamente a casa. Qui invece Sarai è con Abramo ed è protagonista attiva di questa vocazione. Ecco perché c’è una componente al v. 3, che è quella delle famiglie della terra, dei clan della terra che saranno benedette, non soltanto i popoli, le nazioni (goi: nazioni pagane), ma dice il testo benedirò in te tutte le famiglie della terra. Questo viaggio porta ad una “berakà” sarà una benedizione non solo per Abramo stesso, non solo per la nazione che verrà da Abramo, ma per le famiglie della terra.

Al v.5 si dice che Abramo prese la moglie con sé, insieme al nipote Lot. Troveremo lo stesso verbo al v.15 dove si dice che anche il faraone prende Sarai. C’è un gioco su questo due verbi: Abramo prende Sarai, il faraone prende Sarai. Lo commenteremo tra poco.

Abramo prende la moglie , prende anche il nipote e tutti i beni che avevano acquistato in Arran. Notiamo due cose: Abramo è sposato e quindi con lui parte anche la moglie. Qui c’è qualcosa di diverso dall’odissea di Ulisse, ma c’è qualcosa di diverso anche dall’odissea di Paolo. Paolo era un fariseo ed è veramente difficile pensare ad un fariseo che non fosse sposato perché il primo comandamento dato nella Torà da Dio all’uomo è : “ crescete e moltiplicatevi”. C’è un testo nel Talmud che dice che chi non è sposato viene meno al primo comandamento che Dio ha dato all’uomo. Ecco perché Onan, spargendo il proprio seme per terra, viene condannato, non perché si tratta di un atto di autoerotismo, di masturbazione, ma perché viene meno al primo comandamento e alla sua vocazione di crescere e moltiplicarsi, non vuole dare un figlio alla donna a cui si unisce e perciò va contro il primo comandamento.

E’ proprio la tentazione di Babele. Sapete quale è il peccato di Babele? Vi ricordate cosa succede a Babele? Non si tratta né di torri, né di lingue: il problema è che tutti vogliono rimanere chiusi dentro la città e non volendo uscire da questa città, sono costretti ad espandersi in altezza, ma l’uomo è pensato per crescere e moltiplicarsi e riempire la terra.

Attenzione questo è il primo comandamento, non il più importante, ma il primo, perché, se questo comandamento non viene rispettato, finisce la discendenza, si estingue l’umanità.

La coppia deve essere aperta poi si può anche non procreare Questo è il primo comando di Dio all’uomo per gli ebrei, quindi per un ebreo è impensabile non essere sposato, un uomo che non è sposato non è un vero uomo.

Per esempio non può esserci l’ordinazione rabbinica se uno non è sposato e non ha già due figli. Figuriamoci per un fariseo, cioè per un ebreo osservante come lo era Paolo. Quindi Paolo doveva essere necessariamente sposato, però Paolo era da solo come si dice in: 1 Cor 7. Qui Paolo ci lascia pensare quando dice: “ siate come me”, quindi non sappiamo bene, ma le ipotesi sono che: o era stato lasciato dalla moglie o era vedovo.

Abbiamo già incontrato questo problema in Mosè che, dopo aver incontrato Dio nel roveto ardente, non voleva più unirsi a sua moglie, voleva divorziare.

Qui però c’è qualcosa di veramente interessante perché Abramo, proprio in questo inizio di viaggio, si accorge di lei , dice la scrittura. Abramo porta con sé tutta la famiglia, i beni e tutte le anime che si erano comprati Abramo e Sarai. Guardate al verbo che significa acquistare, fare e la CEI traduce e “tutte le anime che si erano procurate”. Cosa significa questo versetto? Non lo sappiamo. Il primo senso è quello per cui Abramo era persona molto ricca e quindi avevano comprato gli schiavi e le schiave. Ma questo non piace alla interpretazione rabbinica che invece interpreta così: Abramo era diventato così zelante, dopo l’incontro con il Signore, zelo che aveva trasmesso a Sarai. Allora Abramo e Sarai insieme facevano questa forma di apostolato, ecco perché c’è il verbo al plurale, cioè convertivano le persone; Abramo gli uomini e Sarai le donne: quindi tutte le persone, uomini e donne, che Abramo e Sara avevano portato sotto la shechinah del Signore, quindi portano con sé tutte le anime che si erano convertite al Dio di Abramo perché possano entrare insieme nella Terra Promessa.

Voi sapete che per gli Ebrei non ci possono essere spazi vuoti: bisogna riempirli, quindi non piace un Abramo che viene fuori già adulto all’età di 75, bisogna riempire gli spazi e allora nell’esegesi ebraica si racconta che Abramo viene da una lunga tradizione di politeisti, tutti dediti ad adorare un’infinità di dei, addirittura il padre Terach era un costruttore e un commercianti di idoli, ma lui incontra il Signore e in quel momento la sua vita cambia, come quella della sua sposa e tutte e due a Carran compiono una grande opera: quella di guadagnare al Signore tante anime che portano insieme a loro verso la terra promessa.

Qui abbiamo notato un primo punto: Abramo non può essere solo a servire il Signore .

Romano Penna dice che Saulo era solo per servire il Signore perché la sua vita era troppo dura per una donna. Rileggete le “peristase cataloghe” l’elenco della sofferenze che Paolo ha vissuto in 1Corinzi: pericoli di fiumi, naufragi, lapidazioni, battiture, prigionia di due anni a Cesarea e le altre prigionie…. È impossibile che Paolo le possa vivere con una donna. Paolo, per annunciare il vangelo in mezzo a mille difficoltà, per una maggiore libertà, resta solo.

Ma qui abbiamo un altro discorso: nella tradizione giudaica Abramo è il primo monoteista, ma non lo è da solo, vive questa esperienza con Sarai e, da fabbricanti di idoli, diventano coloro che comprano anime per portarle al Signore Iddio.

Quindi c’è un investimento per il futuro, quello riguardante le famiglie, riguardante tutte le anime che partono con Abramo e Sara e che diventa un investimento molto importante quando Abramo rivede il Signore che gli appare, come dice il v.7: “io darò questa terra a te” .

Questa è la promessa che tutti quelli che escono dalla propria terra, dalla casa paterna per andare verso una terra vorrebbero sentirsi dire “che darò a te”. E invece il Signore dice “al tuo seno”e cioè: che darò alla tua discendenza, cioè quello che Abramo riceve è un investimento per il futuro. Questa promessa è molto importante perché questa promessa ha una vocazione familiare, nel senso che, intanto Abramo deve avere una discendenza, quindi deve essere sposato, deve saper fare figli, e deve averne e infatti nei capitoli seguenti il problema di Abramo è quello di riuscire ad avere un figlio, anche perché la moglie ha sessantacinque anni e non ha figli, è sterile. Però riflettiamoci pure: questo è un investimento per il futuro.

Sono stato nel mese precedente in Israele e siamo andati con i rabbini sul monte Hertsel, che sapete che è il monte che si trova vicino ad Yad Vashem Encarem Gerusalemme che è un po’ il sacrario di Gerusalemme, dove si trova l’immaginario simbolico c’è la tomba di Hertsel, fondatore del Sionismo, il simbolo del ritorno alla terra. Ebbene è stato interessante vedere che gli Ebrei hanno piantato alberi, i quali però sono alberi che portano frutto non subito, ma dopo molti anni. Ci sono alberi che, secondo la tradizione, portano frutto solo dopo sette anni e spesso questo frutto non può essere goduto da chi pianta gli alberi. E’ come piantare un albero quello di muoversi ed andare verso una nuova terra e avere una speranza che questo andare porti frutto, ma non subito e che in queste parole dette da Dio ad Abramo e Sarai questo frutto non possa essere goduto da chi pianta questo vigneto, questo oliveto.

Quando nel profeta Geremia, si parla, molti secoli dopo, della disfatta nazionale e dell’esilio e ad un certo punto il profeta, al capitoli 31, rassicura il popolo e dice: “State tranquilli tornerete nella vostra terra e comprerete ancora campi e pianterete ancora alberi, cioè potrete cominciare a rivivere, ma con questa idea che magari non sarete voi a raccogliere e goderne i frutti, ma i vostri figli.

Forse leggeremo come Abramo entra in possesso della terra Promessa: cosa fa Abramo a Mactela, all’attuale Ebron, il santuario dove riposano Abramo e Sarai? Abramo compra la terra. Dio gli promette la terra e, quando muore Sarai, non ha una terra dove seppellirla e la deve comprare. Perché deve comprare questa terra? Vedremo cosa significa: varrà la pena di ritornarci poi.

Ecco perché Abramo deve fare questa uscita ed è come investire, un piantare alberi che daranno frutti non per sé, ma a favore di altri, non è fare una cosa solo per me, ma soprattutto per gli altri: questa è la logica familiare.

Non è la logica di quell’imprenditore che raccoglie molto dalle sue terre, fa nuovi contenitori e pensa poi che ora è tempo di godere, non pensa nemmeno al fatto che ne possano godere i propri figli. Invece nella logica familiare non sa se riuscirà a godersi la pensione, anzi non se la gode la pensione, perché è il momento in cui bisogna aiutare i figli. Ascoltavo come oggi in questa crisi tremenda che stiamo vivendo sono spessissimo i nonni quelli che fanno da veri ammortizzatori sociali. Ma questo se ci pensate bene è una logica familiare, questo è bellissimo perché ci dice che non viviamo per noi stessi, ma investiamo nel futuro, cioè uno vive per gli altri che verranno dopo, abbiamo ancora la speranza. Infatti non abbiamo molti figli, perché non sempre c’è questo senso dell’investimento per il futuro.

Bene Abramo, a risposta, v.7, dopo che Dio gli ha fatto la promessa della terra, Abramo dice: “Va bene, ci credo ed e costruisce un altare” Questo per dire: “io ci credo e questo macigno è il segno della mia fede. E’ un po’ come il vostro anello, le fotografie del matrimonio, le memorie che ti ricordano la promessa di Dio, qualcosa a cui poter tornare sempre anche nei momenti di difficoltà. Abramo dice: ci metto questo altare, questo macigno, qualcosa che ti può fare sempre presente la promessa di Dio, questo macigno che non si muove , ma è sempre lì.

Ed ecco che mentre Abramo pensa di potersi stanziare e che si possa compiere la promessa della terra, intanto la promessa non si compie perché non hanno figli, ma soprattutto perché Abramo non ha ancora capito chi è Sarai, non si è ancora innamorato di lei, ma soprattutto perché viene la carestia.

La carestia viene in molti momenti particolari, ci sono 10 carestie (libro di Rut: quando la carestia fa spostare Elimelec andò da Betlemme di Giuda a Moab, Giuseppe scende in Egitto per preparare la strada ai fratelli, perché durante la carestia il popolo di Israele possa sussistere….), le carestie provocano spostamenti, Abramo voleva accamparsi, ma venne la carestia ed Abramo scende in Egitto.

L’Egitto è un paese prospero, ricco, dove vai per sopravvivere, ma è anche un luogo pericoloso, un luogo che può imprigionarti, un luogo dove tu puoi dimenticare la promessa fatta da Dio, perché la ricchezza può alienarti e può allontanarti dal Signore. Vedremo che Abramo e Sarai saranno cacciati dall’Egitto perché non è il loro luogo, il loro luogo è la TERRA Promessa. Anche Gesù viene salvato dalla fuga in Egitto, ma poi torna.

Quando Abramo fu sul punto di entrare nei confini dell’Egitto, Abramo sembra svegliarsi. Come mai Abramo si accorge ora che Sarai è tanto bella? Come mai tutti si accorgono ora che Sarai è tanto bella?

Dicono i rabbini:che, quando Abramo scese in Egitto, per la prima volta, passando da Canaan all’Egitto, si rese conto di quanto era bella Sarai, casto come era, non aveva avuto mai l’occasione di guardarla in volto, ma ora, mentre attraversavano il ruscello, vide il suo volto riflesso nell’acqua e si rese conto della sua bellezza che splendeva nel sole. Qui i rabbini devono risolvere questo grave problema: attenzione!

Come mai Abramo si sveglia improvvisamente e ora che Sarai ha 65 anni si accorge che sua moglie è bella e non solo lui, ma anche le guardie del faraone e il faraone addirittura il faraone se la prende per sposa?

Questo è molto importante e soprattutto molto bello: tutto ciò ci dice che in un viaggio come quello che hanno affrontato Abramo e Sarai possono accadere molte cose. Questo uscire dalla terra, questo affrontare insieme i pericoli ,il vivere la precarietà e addirittura essere per l’altro la salvezza ( se tu farai questo io vivrò, non solo Sarai salva Abramo dicendo di essere sua sorella, ma al punto che Abramo per la prima volta si accorge di lei «Vedi, io so che tu sei donna di aspetto avvenente. 12Quando gli Egiziani ti vedranno, penseranno: Costei è sua moglie, e mi uccideranno, mentre lasceranno te in vita. 13Dì dunque che tu sei mia sorella, perché io sia trattato bene per causa tua e io viva per riguardo a te».) fare un simile viaggio insieme, crescere insieme, porta nella coppia una nuova consapevolezza di sé e dell’altro al punto di scoprire nell’altro una persona capace di risorse fino ad ora sconosciute, acquisendo una nuova bellezza agli occhi di chi ha condiviso tutta una viaggio pieno di difficoltà con l’altro.

Leggiamo le note nella Bibbia di Gerusalemme e vediamo un tentativo di spiegazione della Bibbia di Gerusalemme nota 12,13 Qui Abramo viene visto come uno che chiede di fare carte false poi si dà una spiegazione di tipo legale-giuridico alla dizione di Sarai “sorella”.

Nell’alta Mesopotamia, nella aristocrazia urrita un marito poteva adottare in modo fittizio la sua sposa come sorella e questa godeva, allora, di una considerazione accresciuta e privilegi speciali. Tale sarebbe stata la condizione di Sarai e Abram se ne sarebbe vantato davanti agli egiziani che si sarebbero ingannati. Cosa significa tutto questo? Intanto vorrei che voi notaste che Abramo dice al v13; se tu fai questo io vivrò, cioè per te, grazie a te, in forza di quello che tu farai, traduce San Girolamo: “ob gratiam tui”. Quindi Abramo riconosce che, se Sarai farà questo, lui vivrà, ma questo termine “sorella” comporta qualcosa di molto più grande di quello che abbiamo detto ora relativamente alle usanze del tempo. Queste usanze però erano interessanti perché dicevano che una donna che veniva sposata era amata a tal punto che da sempre era riconosciuta appartenente al clan da sempre. Quando il marito diceva: “tu sei mia sorella” diceva “tu appartieni da tempo alla mia famiglia, alla mia gente, alla mia storia”, dunque c’è un dato da non disprezzare che è quello che dice: “riconoscere nella moglie una tale vicinanza che solo i fratelli e le sorelle hanno avuto perché sono cresciuti insieme” . Questo è quello che io intendo il significato più probabile, io insisto su questo punto facendo riferimento a tutte le altre volte in cui il termine compare nella scrittura e in particolare nella storia di amore del Cantico dei cantici. Sentite come è chiamata l’amata al Cap 5 versetto 2, è chiamata: “sorella mia, amica mia, mia colomba, mio tutto”. Qui non si tratta semplicemente di un espediente, che poi come sappiamo non funziona, perché Dio è con Sarai, ma si tratta di una formula in cui Abramo esprime non solo l’unione matrimoniale e la vicinanza a questa sua sposa, ma, come nel cantico, l’amicizia e la complicità al punto che è come se la riconoscesse da sempre come parte di sé.

Guardate che non ci si può divorziare dai fratelli o dalle sorelle, ci si può divorziare da una moglie, ma non posso divorziare dal mio passato. Negare un fratello o una sorella vorrebbe dire divorziare da se stessi, negare una parte della propria esistenza, negare la propria storia, negare un pezzo della nostra vita. Una moglie si sceglie, un fratello o una sorella no, se ci pensiamo bene chiamare Sarai così, cioè sorella, si tratta di un titolo onorifico, c’è qualcosa che c’è indipendentemente da quello che abbiamo scelto, ma qualcosa che fa parte del linguaggio dell’amore.

Però c’è anche una terza spiegazione; guardate in genesi 10,12 dove si dice che sono figli dello stesso padre e non della stessa madre. I rabbini lo avevano notato, infatti questo sistema si chiama “matronimico”, dove, non si tratta né di un caso di incesto né di un caso di adozione secondo la tradizione urrita, ma fa parte della tradizione giudaica, cioè riconoscere fratelli solo i figli della stessa madre (la linea dell’ebraismo si trasmette grazie alla madre, è la madre che trasmette la parentela) allora in questo testo si dice che Sarai era figlia dello stesso padre di Abramo e quindi erano veramente fratelli e sorella, ma che potevano comunque sposarsi in questo sistema.

Tanti modi di risolvere questa questione, a noi interessa che questa vicinanza e questa complicità salvi la vita di Abramo e salvi la coppia e Abramo e Sarai possano compiere il loro ministero anche in una terra straniera, anche in Egitto. Infatti dice la Scrittura:



14Appunto quando Abram arrivò in Egitto, gli Egiziani videro che la donna era molto avvenente. 15La osservarono gli ufficiali del faraone e ne fecero le lodi al faraone; così la donna fu presa e condotta nella casa del faraone.



Attenzione questo verbo è lo stesso dell’inizio del cammino di Abramo quando si dice “ Abramo prese sua moglie… Qui noi scopriamo una Sarai che si sacrifica per il marito, ma fino a che punto si sacrifica? Cosa dice il racconto? Dice che lei è stata con il faraone, è entrata nell’arem del faraone, e dice la scrittura:



16Per riguardo a lei, egli trattò bene Abram, che ricevette greggi e armenti e asini, schiavi e schiave, asine e cammelli.



Cioè Abramo si arricchisce per il sacrificio della moglie. Il simbolo, per uscire dalla lettera, è questo: Abramo si arricchisce per il sacrificio della moglie.

Ma fino a che punto Sarai si è sacrificata? Sarai è entrata a far parte dell’arem, ma è entrata nella stanza da letto del faraone? Ha avuto rapporti sessuali con lei?

Ci dice un commento moderno, il commento Wehn Hem (?), alla genesi dice che questo prendere Sarai non implica che il faraone abbia avuto rapporti sessuali con lei.

Nella tradizione giudaica Sarai non riesce ad essere toccata dal faraone, è molto interessante: Sarai viene salvata dal faraone perché possa tornare ad Abramo e generare solo a lui un figlio, e quindi la coppia in questo modo non è divisa, ma anzi esce da questa vicenda rafforzata e nella scrittura si dice: Il faraone dice ad Abramo: Prendi tua moglie e vattene! I rabbini nella tradizione giudaica hanno elaborato un bel midrash che racconta come il faraone, quando voleva introdurre Sarai in camera da letto per unirsi a lei., veniva punto dalle frecce di un angelo misterioso e nascosto. Più il faraone tentava di avvicinarsi a Sarai più l’angelo con dardi misteriosi colpiva il faraone fino a che gli venne la lebbra e una serie di piaghe che poi colpirono tutto l’Egitto. Così, come Israele viene salvato dall’assimilazione e dalla confusione in Egitto e Dio mette in atto tutto quello che può per salvare il suo popolo, così allo stesso modo il patriarca e sua moglie devono essere salvaguardati al punto che il faraone quando prende consapevolezza che Sarai non è la sorella di Abramo, ma la sua sposa, gliela rimanda indietro e anzi gli dà lo stesso comando di Dio e le dice: prendila e vattene.

E’ chiaro che qui il testo è molto ironico e il faraone è impedito di toccare Sara, lei è salvaguardata nella sua purezza, perché lei può essere soltanto la sposa di Abramo. Ma la loro missione misteriosamente continua perché, mentre se ne vanno, Abramo e Sara continuano la loro missione, vi dico cosa dice il midrash: Abramo, per i pochi giorni che restò in Egitto, aiutò gli abitanti di quella regione e insegnò loro l’astrologia e l’astronomia che quel popolo ancora non conosceva: Abramo cioè è anche un maestro di sapienza per le persone con cui viene a contatto e poi Abramo e Sara tornano arricchiti verso la terra di Canaan.

Ho terminato questa meditazione, dove abbiamo messo a punto alcune cose importanti, ma rimane un grosso punto di domanda che, come vi ho detto all’inizio, presento a voi e alla vostra meditazione: vi chiedo di rivedere questo testo nella vostra prospettiva coniugale e di illuminarlo con queste due luci che, come abbiamo detto all’inizio, fanno parte della vostra esperienza di coppia e nel ministero che voi vivete nella coppia. Questo un ministero non è isolato, né quello del marito né quello della moglie, ma vissuto nella coniugalità ed è segnato fortemente da questa dimensione e dunque in quale senso Abramo e Sarai vivono questa ministerialità reciproca e coniugale e come la vivono verso poi verso gli altri.

Io spero già, con quello che io vi ho dato, di aver risposto a questa domanda, però voi potete intraprendere dei cammini successivi. Ora c’è un tempo di silenzio, ci ritroviamo alle cinque e mezzo, poi ci scambieremo le nostre riflessioni su questo testo intrigante. Spero che possiate arricchire questa lezione con le vostre riflessioni e per dirci se quello che avete sentito dalle interpretazioni moderne e rabbiniche funziona, oppure se avete altre interpretazioni su questo testo che dice di un rischio che però viene fortunatamente risolto dalla provvidenza di Dio e dall’attaccamento tra Abramo e Sarai.





Monteripido 7 novembre 2009



2° lezione di Spiritualità Anno 2009-2010



Ben trovati in questa festività che ricorda il secondo patrono della città: il beato Ercolano, compatrono della diocesi, ma anche martire che ha dato la sua vita anche per la città, esempio per tutti durante i sette anni di assedio della città da parte dei Goti, molto importante anche per il suo impegno e per la testimonianza civica data.



Questa sera la meditazione riguarda ancora, come abbiamo pensato di fare con il tema che abbiamo selezionato, l’idea del ministero del servizio ordinato, ma coniugale, cioè nella formula che vi è propria.

La mia meditazione dunque varrà soprattutto come lettura di alcune dinamiche di coppia che emergono nel rapporto tra Abramo e Sara, così come sono descritti nel libro dalla Genesi.

Cercheremo dunque di tematizzare quale servizio fa Abramo, il quale è chiamato ad essere l’uomo della fede, come dice Paolo nella lettera ai Romani al capitolo quarto, l’esempio dell’uomo credente. Nella Bibbia, Gn 5,16, è scritto: Abramo “credette”. E’ la prima volta che questa parola “credette” “haman iehemen Abraham Adonai ” “Abramo credette nel Signore”, (“epistensen” in greco), compare nella Bibbia.

Prima di Abramo, potremo dire, che non esiste la categoria dell’ “aver fede” “credette”, ovvero di colui che si affida totalmente a Dio.

Questo testo di Gn 5,16, che leggeremo, lo prende San Paolo come modello di tutti i credenti.

Ebbene il servizio di Abramo, che è un servizio che si mostra nella fede, è un servizio che vedremo e sarà quello di essere il Padre dei popoli, benedizione per tutti i popoli, ma questo servizio viene svolto insieme a Sara , con tutto quello che ne consegue.

La scorsa volta, se ricordate, ci siamo lasciati con il capitolo 12 e poi avanti sempre nel cap. 12 con Abramo e Sarai in Egitto, con questa questione delicatissima della bugia che deve dire Abramo. Abbiamo visto poi che non è una bugia in senso stretto, poichè ricorre nell’uso antico chiamare la moglie sorella, ma accade qualcosa nella coppia.

Andando avanti intanto potremo dire che Abramo vive una difficoltà relazionale con il nipote, dice il testo che dall’Egitto Abramo risalì (Gn 13,1). La moglie viene paragonata agli averi, come nella cultura orientale.

1Dall`Egitto Abram ritornò nel Negheb con la moglie e tutti i suoi averi; Lot era con lui.

Poi però accade che Abramo e Lot si devono separare per le greggi, erano ricchi e i pascoli non bastavano.

2Abram era molto ricco in bestiame, argento e oro. 3Poi di accampamento in accampamento egli dal Negheb si portò fino a Betel, fino al luogo dove era stata già prima la sua tenda, tra Betel e Ai, 4al luogo dell`altare, che aveva là costruito prima: lì Abram invocò il nome del Signore. 5Ma anche Lot, che andava con Abram, aveva greggi e armenti e tende. 6Il territorio non consentiva che abitassero insieme, perché avevano beni troppo grandi e non potevano abitare insieme.

Qui c’è un segnale nelle relazioni familiari, c’è una separazione, poi come vedremo, Abramo e Lot non perderanno i contatti, ma qui c’è un elemento di divisione: “vada ognuno per la propria strada”.

Per questo sorse una lite tra i mandriani di Abram e i mandriani di Lot, mentre i Cananei e i Perizziti abitavano allora nel paese. 8Abram disse a Lot: «Non vi sia discordia tra me e te, tra i miei mandriani e i tuoi, perché noi siamo fratelli. 9Non sta forse davanti a te tutto il paese? Sepàrati da me. Se tu vai a sinistra, io andrò a destra; se tu vai a destra, io andrò a sinistra».

Poi c’è la guerra. Abramo vi viene coinvolto perché viene avvisato che suo nipote Lot, il testo lo chiama fratello, ma è suo nipote, è stato preso prigioniero. Allora Abramo va a liberarlo con un gran numero di soldati , 318, un numero simbolico, ed Abramo recuperò Lot e tutti i suoi beni. Così da una relazione di divisione si passa ad una relazione di aiuto.

Recuperò così tutti i suoi beni e anche Lot suo parente, i suoi beni, con le donne e il popolo. Gn14,16

Qui c’è un episodio importantissimo: Abramo, mentre si avvicina a Gerusalemme, da Ebron a Gerusalemme non c’è una grande distanza, incontra un personaggio speciale e misterioso che è presente solo qui nella Bibbia, ma che è molto importante nella teologia del Nuovo Testamento: Melchisedek, re di Salem (salem =pace) (come dice la lettera agli Ebrei re di Gerusalemme). “Melchi”, significa “re”, “sedek” significa di “giustizia”. Melchisek , che era sacerdote del Dio Altissimo, benedice Abramo come è detto in Gn 14,18-19. Dunque Melchisedek. se benedice Abramo e riceve da lui la decima, è più grande di Abramo e questo è importante per noi. Perché? Perché questa teologia spiega perchè Gesù, che non era sacerdote, perché non apparteneva alla tribù di Levi, e quindi non era di discendenza aronita, come mai Gesù può essere chiamato sacerdote e tutto il testo della lettera agli Ebrei spiega: perché Gesù è sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek, cioè secondo un ordine che è addirittura superiore a quello di Aronne. Questa è una teologia importante che i cristiani hanno scoperto perché bisognava mostrare come l’offerta della vita di Gesù avesse un senso sacerdotale, ma Gesù non era sacerdote, ma laico e dunque come assimilare, come comprendere la sua offerta? Perché si fa riferimento ad un Messia che doveva venire anche dalla discendenza di Melchisedek, a cui molti cristiani si rifanno per inquadrare il misterioso gesto di un Messia che dà la vita e muore per la salvezza di molti, come dice la Scrittura.



Intanto Melchisedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo 19e benedisse Abram con queste parole:



«Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra,

20e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici».

Abram gli diede la decima di tutto.



Quindi Abramo esce bene da tutta la vicenda: è ricchissimo, ha ricevuto una benedizione da Dio Altissimo, che gli ha messo nelle mani i suoi nemici, ha recuperato anche suo nipote, ma Abramo sta morendo e non ha figli e questo è il tema della prima alleanza, al capitolo 15° , chiamata, nella tradizione giudaica, l’alleanza dei pezzi, o delle parti ed è un testo molto importante perché Dio compie un’alleanza con Abramo, gratuita, nella quale Dio si impegna e nella quale dobbiamo cogliere questo elemento significativo, non ci possiamo fermarci e leggere tutto il testo perché voglio arrivare all’alleanza tra Abramo e Sara.

Questa alleanza è significativa perché risponde ad una domanda di Abramo: v.2 “ Signore cosa mi darai?” Domanda che possiamo comprendere perché Abramo ne ha rischiate di tutti i colori, ha combattuto una guerra, è già anziano, ha rischiato di perdere suo nipote e ad un certo punto sente una parola del Signore v.1 che dice: “«Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande». Ma “Rispose Abram: «Mio Signore Dio, che mi darai? Io me ne vado senza figli e l`erede della mia casa è Eliezer di Damasco». 3Soggiunse Abram: «Ecco a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede».

“A me non hai dato una discendenza”.

Ecco sentiamo che nel servizio di Abramo che deve fare, che noi nel nostro linguaggio abbiamo chiamato “diaconia”, che è l’essere benedizione per tutti i popoli manca l’anello fondante, manca la discendenza : presupposto della benedizione di Abramo per tutti i popoli ricordate: “ farò di te una grande nazione, ti benedirò attraverso un figlio, ma questo figlio non arriva4Ed ecco gli fu rivolta questa parola dal Signore: «Non costui sarà il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede». 5Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». 6Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia. 7E gli disse: «Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questo paese». 8Rispose: «Signore mio Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?». 9Gli disse: «Prendimi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un piccione». 10Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all`altra; non divise però gli uccelli. 11Gli uccelli rapaci calavano su quei cadaveri, ma Abram li scacciava. 12Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco un oscuro terrore lo assalì. 13Allora il Signore disse ad Abram: «Sappi che i tuoi discendenti saranno forestieri in un paese non loro; saranno fatti schiavi e saranno oppressi per quattrocento anni. 14Ma la nazione che essi avranno servito, la giudicherò io: dopo, essi usciranno con grandi ricchezze. 15Quanto a te, andrai in pace presso i tuoi padri; sarai sepolto dopo una vecchiaia felice. 16Alla quarta generazione torneranno qui, perché l`iniquità degli Amorrei non ha ancora raggiunto il colmo».

17Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un forno fumante e una fiaccola ardente passarono in mezzo agli animali divisi. 18In quel giorno il Signore concluse questa alleanza con Abram:



«Alla tua discendenza

io do questo paese

dal fiume d`Egitto

al grande fiume, il fiume Eufrate;

19il paese dove abitano i Keniti, i Kenizziti, i Kadmoniti, 20gli Hittiti, i Perizziti, i Refaim, 21gli Amorrei, i Cananei, i Gergesei, gli Evei e i Gebusei».

Sì , ma io me ne vado senza figli e questo figlio non arriva, pensa Abramo. Ma Dio si impegna con questa prima alleanza ( la prima alleanza che abbiamo nella Scrittura è quella fatta con Noè, ma questa è un’alleanza importante perché, mentre Noè rappresenta tutta l’umanità, qui questa è un’alleanza è con Israele, Abramo diventa qui l’eponimo di Israele.)

Questa alleanza avviene con questo rito: si spezzano gli animali a metà, per questo è detta delle parti. C’è un significato dentro questa liturgia che è legato ad un rito antico esecratorio, dove per compiere un’alleanza si prendevano delle bestie, si uccidevano e si spaccavano per metà, e poi si passava in mezzo a questi pezzi e si diceva: “Avvenga su di me quello che è avvenuto a questi animali”, ma c’è anche un altro significato: quello dell’unità profonda tra queste parti, tra quello che significano Dio ed Abramo, Dio e il suo popolo. Non so se avete letto l’ultimo romanzo di Tiziano Scarpa “Stabat mater” che ha vinto il premio Strega questo anno. È molto forte perché parla di una bambina che sarà l’allieva del maestro Vivaldi, che suonava nell’Ospitale di Venezia. Vivaldi ha iniziato la sua carriera suonando per queste orfane abbandonate da piccole. Questa ragazza Cecilia prega ogni notte, prega sua madre e scopre che questa vera madre è la Vergine Maria. Queste bambine o bambini, che venivano lasciati sulle scale di una Chiesa o nei conventi, venivano abbandonate con un medaglione tagliato in due parti in modo che se la madre avesse potuto, in futuro, prendersi cura della figlia sarebbe andata all’ospitale a riprenderla e l’avrebbe riconosciuta dalla medaglietta di cui lei sola possedeva l’altra metà. Cecilia scopre che la madre ha invece tagliato una rosa dei venti stampata a metà e aspetta invano che la madre torni a prenderla con l’altra metà.

Ebbene in un midrash sta scritto che quando il forno fumante, il fuoco di Dio passa tra gli animali tornano ad unirsi e a vivere di nuovo, il che vuol dire che Dio ha gradito questo sacrificio e l’unità viene ricomposta.

Però questa alleanza delle parti o dei pezzi, che vuol dire che Dio è fedele, non ha un riscontro effettivo, perché Abramo non ha un figlio.

E il tempo che intercorre tra questa alleanza e la nascita del figlio è un tempo lungo. Prima che la diaconia di Abramo si esprima attraverso la benedizione e prima che possa diventare benedizione passa tanto tempo al punto che questa volta è Sarai che prende l’iniziativa e, con un atto di umiltà, riconosce che è lei ad essere sterile e quindi dice al marito: “Unisciti alla mia schiava forse da lei potrai avere un figlio”. A noi questa cosa sembra impossibile e scandalosa, ma in realtà tutto questo è codificato nel codice di Hammurabi, che è il documento più antico che abbiamo. Questo documento, importantissimo per il confronto con i Dieci Comandamenti, con la legge del taglione e con la Torah, trovato a Muffin, databile intorno a questo periodo e di cui vi leggo una parte: “Se ghilimminu (una donna) dà dei figli a suo marito questi non prenderà un’altra moglie, ma se ghlilimminu è sterile sarà lei a scegliere una donna per suo marito” (Questo è quello che farà Sarai. Vedete: la discendenza è talmente importante al punto che, nel mondo ebraico, è lecito divorziare da una donna che è incapace di dare figli, è quello che è scritto in Deuteronomio 24,1). “ Ma se la donna scelta dalla moglie diventa arrogante perde il proprio stato”

Sarai chiede ad Abramo di unirsi ad Agar:

3Così, al termine di dieci anni da quando Abram abitava nel paese di Canaan, Sarai, moglie di Abram, prese Agar l`egiziana, sua schiava e la diede in moglie ad Abram, suo marito. 4Egli si unì ad Agar, che restò incinta. Ma, quando essa si accorse di essere incinta, la sua padrona non contò più nulla per lei. 5Allora Sarai disse ad Abram: «L`offesa a me fatta ricada su di te! Io ti ho dato in braccio la mia schiava, ma da quando si è accorta d`essere incinta, io non conto più niente per lei.

Che cosa succede ? Intanto c’è un gesto di grande generosità da parte di Sarai, che non può aver figli e allora dice al marito di provarci con la sua schiava: è chiaro che c’era la legge del codice di Hammurabi che permetteva questo uso poligamico, i patriarchi sono tutti poligamici fino oltre Davide, Ma qualcosa va storto, o perché Sarai non ha fatto questo gesto a cuore libero o perché Agar non è una donna qualsiasi, ma una principessa, infatti nella tradizione ebraica Agar è la figlia del faraone. Ricordate quando il faraone non riesce a toccare Sarai e avrà tutte quelle malattie, ebbene pur di liberarsi di questa coppia che sta causando tanti problemi al suo paese prende sua figlia , la fa schiava di Sarai e li manda via lontano.

E’ chiaro che Agar è la figlia del faraone e quindi, quando rimase in cinta, la propria padrona non contava più nulla per lei. Questo in quanto non solo poteva far valere il fatto che lei era incinta e Sarai no e poi perché poteva far valere il proprio status di principessa. Abramo la mette nelle mani della moglie e qui emerge in Sarai una donna molto spietata che, pur essendo la madre di tutti gli ebrei, costringe Agar ad andarsene e fuggire.



Il Signore sia giudice tra me e te!». 6Abram disse a Sarai: «Ecco, la tua schiava è in tuo potere: falle ciò che ti pare». Sarai allora la maltrattò tanto che quella si allontanò.



Questo è un elemento importante, ricordiamo che Abramo e Sarai sono i patriarchi, sono i fondatori del popolo di Israele, eppure un’ombra grava su un aspetto della loro esistenza; questi due patriarchi sono presentati anche nelle loro dimensioni di peccato.



7La trovò l`angelo del Signore presso una sorgente d`acqua nel deserto, la sorgente sulla strada di Sur, 8e le disse: «Agar, schiava di Sarai, da dove vieni e dove vai?». Rispose: «Vado lontano dalla mia padrona Sarai». 9Le disse l`angelo del Signore: «Ritorna dalla tua padrona e restale sottomessa». 10Le disse ancora l`angelo del Signore: «Moltiplicherò la tua discendenza e non si potrà contarla per la sua moltitudine». 11Soggiunse poi l`angelo del Signore:

«Ecco, sei incinta: partorirai un figlio e lo chiamerai Ismaele,

perché il Signore ha ascoltato la tua afflizione.





Gli ebrei non risparmiano le critiche quello che hanno fatto questi patriarchi, che sono i fondatori del popolo di Israele, dai quali deriva l’inizio della storia della salvezza, hanno compiuto un atto impietoso e deprecabile. Qua c’è una differenza importante tra il nostro modo di raffigurarci la santità e la tradizione giudaica; nella tradizione giudaica non esistono santi, esistono giusti, ma i giusti sono pieni di debolezze e lo si vede bene da questo fatto, Sarai, pur essendo la madre di tutti gli Ebrei, è una donna spietata ed è così cattiva che maltratta la sua schiava al punto che questa se ne deve andare e fuggire, ma dopo sarà ancora peggio perché la caccerà nel deserto a morire. Questo è un elemento interessante di cui gli ebrei stessi sono consapevoli e non risparmiano le critiche a quello che questi due patriarchi hanno fatto, pur essendo i fondatori della loro fede, della loro religione, sono pervasi di limiti e di peccati. E qui accade qualcosa che è il primo ritrovamento, qui nella storia di Agar c’è un Angelo che appare sempre a salvarla, per dire che Dio è misericordioso e salva anche quelli che sono mandati via, cacciati, costretti a partire; l’Angelo del Signore la trovò e le disse: « Ritorna dalla tua padrona e restale sottomessa! ». E intanto le promette: « Ecco partorirai un figlio e lo chiamerai Ismael». Questo nome, Ismael è simile a Israel, perché contiene–el chè è il nome di Dio, che questo figlio porterà per sempre. La storia di Agar è dunque un punto, nella relazione tra Abramo e Sarai, molto delicato perché rischia di far dividere questa coppia, io lascio a voi questo elemento. E’ evidente che, quando si tratta di vivere la promessa di Dio, la prima soluzione che viene loro in mente è quella di affidarsi ad una schiava (come abbiamo visto secondo il codice di Hammurabi era permesso avere un figlio da una schiava); questo però non funziona perché forse (è un’interpretazione che avanzo ora) Dio vuole che la promessa di Dio parta dalla coppia originaria che non è Abramo, Sarai più Agar, ma è Abramo e Sarai, ma tutti e due dovranno fare un’operazione molto importante, cambiare nome e fidarsi di nuovo di Dio!

Il concetto è molto semplice, quando c’è un problema è molto più facile risolverlo pagando una schiava, oppure ricorrendo ad una schiava a qualcuno o qualcosa di esterno alla coppia, piuttosto che lavorarci insieme. Quando nella coppia o nella comunità si tratta di fare qualcosa, molte volte è più facile appaltarlo che farlo da soli, perché lavorare insieme è difficile. Per esempio questo succede sempre nei nostri ritiri: quando preghiamo, il primo salmo non funziona, ognuno prega per conto suo come gli pare, ognuno ha i suoi ritmi anche se, quando prega da solo, prega molto bene! Perché non deve rispettare i tempi e le pause dell’altro, ma quando si prega insieme è tutto più complicato perché bisogna aspettare gli altri, per questo i salmi si cantano, così è più facile.

Allora Abramo e Sara, giustamente credo, capiscono che, siccome il figlio non viene, bisogna trovare il modo di assecondare la promessa di Dio. Badate che non è detto in nessun luogo che il figlio debba venire da tutte e due, la promessa non è da te Abramo e da Sara verrà un figlio! Non lo trovate, questo non si dice, quindi oltre al fatto che c’è la legge di Hammurabi che permetteva alla moglie di prendere una schiava e offrirla al marito perché rimanesse incinta (diremmo oggi una madre in affitto). E’ evidente che qui c’è una mentalità che dobbiamo evitare e cioè quella che tenta di risolvere i problemi fuori della coppia, oppure affidarsi ad una terza parte, invece no! Questo cammino deve essere fatto da loro due, ecco perché la seconda alleanza. Ricordate la prima alleanza l’alleanza dei pezzi l’abbiamo spiegata, tocca qualcosa che è all’esterno della coppia. La seconda alleanza è l’alleanza della circoncisione va a toccare il membro maschile e capite bene tutti che c’è dietro un richiamo molto importante alla sessualità e alla capacità generativa; questo accadrà anche più avanti nei patriarchi: ad esempio Giacobbe quando lotterà con l'angelo si dice che viene toccarlo nel nervo sciatico, ma in ebraico questa parte è molto collegata ai genitali e quindi vuol dire che li c'è una dimensione molto collegata alla sua capacità di generare.

Perché Abramo è toccato in questo punto così delicato? Perchè ha a che fare con la sua vita di relazione con il generare e con la moglie. Questa alleanza non è più esterna ma è interna alla coppia ed ha, come unico segno, un segno molto ma molto intimo, il prepuzio, come è descritto bene nel libro (Genesi 17) dove si dice che: "Il maschio non circonciso di cui non sarà stata circoncisa la carne del prepuzio sarà eliminato dal suo popolo perché ha violato l'alleanza". Ancora oggi le due parole: circoncisione e alleanza, in ebraico coincidono; la parola berit significa sia circoncisione che alleanza, poi si specifica berit milhà (alleanza della circoncisione). Questa è la seconda alleanza che Dio fa con Abramo, alleanza che però va a toccare qualcosa della sua vita di relazione, non è più un’alleanza tra Abramo e Dio! E' facile spezzare degli animali! E' facile farci passare un forno fumante in mezzo! E' facile sacrificare! Ma quando ti viene a toccare la tua carne e soprattutto il tuo membro le cose cambiano! E Sara? La circoncisione come sapete non esiste nell'ebraismo per il mondo femminile, ma di Sara si dice la stessa cosa, l'alleanza ha a che fare anche con Sara e con la sua vita intima perchè: "lei non sarà più chiamata Sarai, ma Sara e perchè da lei nascerà un figlio; sentite che qui c'è un richiamo al suo essere madre, al suo (diciamolo con la stessa immagine che abbiamo usato con Abramo) utero, ma soprattutto come di Abramo si dice che non sarà più Abram ma Abraham si dice che Sarai non sarà più Sarai ma Sara; Sarai è un nome che vuol dire: "Mia principessa" perchè la i finale è il suffisso possessivo maschile, prima persona singolare, Sarai significa la mia principessa; ma Sara significa “madre delle nazioni”. Qui c'è un apertura non solo a Israele ma a tutti i popoli, questa è la benedizione originaria di Abramo, egli insieme a Sara sarà benedizione per tutti i popoli, quindi da lei nasceranno tutti i popoli. Anche per Abramo il suo nome Abraham, porta in se in ebraico la parola moltitudine Ab-raham (am padre) della moltitudine (ham).

Che cosa sta succedendo? Succede che tutti e due devono cambiare insieme, che non possono risolvere il problema affidandolo ad una schiava, ma che devono trovare una dimensione che riguardi loro, e voi forse sapete spiegare molto meglio di me questa cosa.

Allora Abramo deve circoncidere tutti e circoncide anche Isamaele che aveva ormai tredici anni, e da qui viene la tradizione per cui i figli di Ismaele (attualmente si considerano tali i Mussulmani), circoncidono il maschio a tredici anni. Ecco perchè Paolo nella lettera ai Galati dice: "circonciso l'ottavo giorno" proprio per dire che è un Ebreo, che è un figlio di Isacco, non figlio di Ismaele, in quanto invece Isacco viene circonciso appena nato, pochi giorni dopo la sua nascita.

La cosa però non finisce qui, perchè accade qualcosa di ancora più importante. La nascita di Isacco avviene con grande fatica e avviene sopra tutto nel momento in cui meno se lo aspettano e quando Abramo e Sara non ci credono più, in particolare sapete del riso di Sara, è un episodio che non ritorno a leggere con voi perchè ci avviamo verso la conclusione. Della nascita di Isacco ricordiamo che, quando meno se lo aspettava, Sara concepì e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia e qui si dice (Gn 21, 2) "nel tempo che Dio aveva fissato"; quando cioè? Quando questo avviene? Per spiegare la libera volontà di Dio, così come la chiameremmo noi, razon la volontà santa di Dio (in senso Biblico) e come Dio agisca, dobbiamo tornare brevemente a Gn 15 e ricordare che quando Abramo domanda: "Quando mi darai il figlio? Signore, io me ne vado senza figli, sto morendo.." dovete ricordare che il Signore compie un gesto molto strano, conduce Abramo fuori dalla tenda e gli dice guarda in cielo e conta le stelle.

Qui è molto interessante quello che ci dice la tradizione rabbinica perchè spiega qualcosa al quale noi non facciamo mai attenzione. Secondo la tradizione rabbinica, in particolare mi riferisco ad un antico midrash “bereshit rabbat” molto antico dei primi secoli cristiani, si dice che Abramo era un mago, un astrologo. La tradizione astrologica è la capacità di leggere le stelle ed è classica nell'ebraismo; come ad esempio sanno fare Daniele e i suoi compagni, come Giuseppe, come i Magi che sono stranieri, ma che intervengono nella storia dell'infanzia di Gesù, come nel libro dell'Apocalisse l'immagine della Donna Vestita di Sole ed è circondata dalle stelle: è sì un’immagine della Chiesa, ma è un'immagine astronomica. Nell'antichità si faceva molta attenzione al cielo, alle stelle, e se ne cercava un significato e così nel midrash si diceva che Abramo fu chiamato fuori dalla tenda, ma non perchè interpretasse le stelle, ecco perchè gli dice "prova a contarle se sei capace", cosa significa contare le stelle? Significa fare il censimento, significa trovare una “ratio”, trovare un significato, leggerle e capire al punto da spiegare. In fondo che cosa è l'oroscopo? Una grande esperta di questi temi, Cecilia Gattotrocchi, che insegnava all'Università di Perugia e che era esperta di questi temi, era solita sempre dire che la gente comune legge gli oroscopi o guarda nel cielo per avere una spiegazione che ti permetta di andare avanti. Quando Dio chiama Abramo fuori dalla tenda e gli dice di guardare le stelle gli sta dicendo: se fin ora hai provato a fare di testa tua e a contare le stelle come sapevi fare tu, perchè eri un astronomo, ora non lo puoi più fare, non ci puoi più contare, non sei più in grado di interpretarle e di leggerle, e che cosa fa Abramo? Abramo credette. Cioè Abramo ad un certo punto abbandona questa forma di idolatria e si fida! Conta le stelle se sei capace, e Abramo invece credette al Signore. Sentite che il testo si spiega molto bene in questo senso, ed è per questa ragione che Genesi 21, 2 dice quando era arrivato il tempo che Dio aveva fissato Sara concepì e partorì, cioè quando? Lo dice il Salmo 1, quando è che l'albero da frutto? A suo tempo! Quindi il figlio (cioè il frutto del ministero) viene quando Dio vuole, probabilmente dopo 23 anni, 13 anni l'età di Isamaele più 10 anni (da quando Abramo è uscito da Canaan a quando genera Ismaele stesso). Dopo tutto questo tempo, cioè dopo 23 anni, arriva il figlio, quindi non arrendetevi! Ma ancora non arrendetevi perchè Abramo, secondo la tradizione giudaica, dopo la morte di Sara si risposa con Agar ed ha sette figli con lei.

Però dobbiamo arrivare a questa sottolineatura, quando ormai Abramo sta morendo, quando ormai è stato offerto il suo membro, quello che ha, che l'ha a quell'età che ha, quando Sara ormai ride, perchè non può fare altro che ridere, arriva il figlio.

Questa è la logica della diaconia che viene da Dio e non della diaconia che ti inventi tu, perchè la diaconia che ti inventi tu va subito da Agar, la usi e cerchi di fare il figlio come lo vuoi tu. Ma questo come con Abramo non funziona, perchè Dio vuole benedire il figlio di Abramo e Sara e questo per due ragioni:



• certamente perchè il figlio della discendenza è il figlio della coppia

• perchè misteriosamente Dio, come in tutta la logica dai Patriarchi in avanti, predilige il secondogenito.



Il figlio maggiore nella Bibbia è sempre quello che ci rimette le penne. Ecco perché quando il Papa Giovanni Paolo II, andò in sinagoga e rivolgendosi agli Ebrei disse: "voi siete i nostri fratelli maggiori", agli Ebrei si drizzarono i capelli. Forse il Papa non aveva capito la psicologia del mondo giudaico che sa benissimo che il fratello maggiore è sempre quello che finisce male. Pensateci un attimo, questa logica che dice che il figlio maggiore di Abramo che pure è suo figlio, (Dio aveva detto "da te nascerà"), non viene scelto, perchè Dio sceglie sempre il più piccolo. Questo non vuol dire che siano destinati ad odiarsi; questa storia è importantissima come sapete per altri due fratelli: Giacobbe e Esaù quando decideranno di ammazzarsi fra di loro e Giacobbe non farà altro che fuggire per trentacinque anni dal fratello Esaù che lo vuole uccidere; qui non si arriva a questo punto.

Quando finalmente Isacco nasce e cresce, Ismaele lo sta portando sulla cattiva strada, lui è un ragazzino tredicenne, dice il testo, che Ismaele giocava con lui, scherzava con il figlio (Gn 21, 9), e allora Sara che vede giocare Isacco, suo figlio, con Ismaele è preoccupatissima e dice ad Abramo: "Scaccia la schiava!".Questo testo viene ripreso da San Paolo nella famosa analogia tra Agar e Sara, al capitolo 4° della Lettera ai Galati, dove anche egli dice "scaccia la schiava". Perchè Sara é preoccupata? Questo il testo non ce lo dice, il midrash elabora moltissimo questi fatti, vuole spiegare che Ismaele non era buono, era un ragazzino che già giocava con l'arco e le frecce, era violento; quindi Sara aveva paura che Isacco si facesse male, addirittura che lo stesse portando all'idolatria. Sara non vuole che i due giochino insieme. In fondo che cosa ci può essere qui? Null'altro che la gelosia di Sara, lei vede che i due fratelli vanno d'accordo, scherzano insieme e quindi in qualche modo ancora viene fuori questo carattere problematico di questa donna che non vuole più avere l'antagonista, addirittura non vuole che il figlio di Agar scherzi con il suo.

E qui c’è uno dei momenti più tristi della storia di Israele che avrà delle conseguenze enormi e cioè Agar viene mandata nel deserto e Abramo compie un gesto spietato che pagherà molto caro, come vi dirò tra poco leggendo e concludendo. Ebbene uno dei modi con cui Abramo paga questo gesto sarà, secondo la tradizione giudaica, offrire Isacco. Ha cacciato Ismaele? Ha avuto il coraggio di mandare via suo figlio con la madre nel deserto? Ma ricordatevi che però arriva l'angelo che salva tutti e due! Ma Abramo deve pagarla. Dunque una delle possibili letture di Genesi 22, l'akedà, è questa: "Hai voluto mandare via Ismaele?", allora "Il Signore disse ad Abramo: "prendi il tuo figlio ed offrilo!". Questa è una lettura interessante che potremmo approfondire, che però non ho tempo e non voglio più stancarvi.

Concludo leggendo questa bella meditazione di Eli Wizel, è il premio Nobel per la pace nel 1986, è un Ebreo che ha una grande conoscenza degli scritti rabbinici, che è sopravvissuto alla shoah, ha scritto molti libri, tra cui questo sulle storie che si trovano nel talmud e che interpretano i personaggi biblici. Qui si dice una cosa molto bella cioè che questi uomini e queste donne che abbiamo incontrato nella Bibbia sono la "nostra storia, una storia in cui tutti i protagonisti sono profondamente umani, il loro presente non è solo il nostro passato è anche il nostro presente"; cioè noi in questa coppia e nelle loro reciproche relazioni vediamo rispecchiata anche la nostra vita con le nostre reciproche fragilità, ma è qui che agisce Dio, cioè non è che accade come Dio aveva deciso di fare prima del diluvio, non è che ogni volta che gli uomini combinano un disastro si può ucciderli e sterminare la specie, Dio si è pentito, ha cambiato idea e da quel momento in avanti ha deciso che non sarà lui a sterminare l'umanità e quindi il Signore ci accetta per quello che siamo, e la storia grande della salvezza si incrocia con la storia quotidiana di questi uomini e di queste donne. Però il prezzo lo pagano, perchè c'è una punizione a questa cattiveria di Sara e anche a questa fragilità di Abramo. Eli Wizel dice che Abramo è uno che ha vinto i Re nella battaglia dei 5 Re, è uno che ha tanti soldi, ma che non riesce a resistere a Sara, che per due volte gli chiede di abbandonare il figlio e la schiava, e lui per due volte cede, mentre avrebbe dovuto dire no! Attenzione, forse Abramo lo fa anche perchè non vuole rompere la relazione con Sara, ma paga questo prezzo e la loro punizione sta nella tragedia di Agar e Ismaele, alcuni Ebrei (Rambaam per esempio, un grande commentatore) dicono che il prezzo più grande per Abramo di aver cacciato Ismaele e che da questo fatto venne fuori un figlio feroce i cui discendenti avrebbero tormentato per sempre i discendenti di Abramo e Sara! Questo non lo dico io, non lo dice un moderno, lo dice un medioevale Nachmanide, ma rendetevi conto che questa cosa vale ancora! Addirittura Eli Wizel spiega come secondo una lettura teologica il dramma della mancanza di pace in medio-Oriente tra i figli di Ismael (i musulmani) e i figli di Israel (tutti e due hanno nel loro nome la parola Dio) questa divisione è purtroppo il frutto di questa crudezza di Sara e di questa debolezza di Abramo.

Spero di non avervi annoiato, facciamo come abbiamo fatto le altre volte, diciamo il vespro alle cinque e mezzo.













P. GIULIO MICHELINI - Incontro del 5 dicembre 2009



3° Incontro: Abramo e Sara.



Abramo dove è tua moglie? Nella lettura di oggi: Sara è dentro la tenda!



Riprendiamo il nostro percorso sul ministero del Diaconato, ma nella condivisione, o meglio in quell'aspetto specifico del ministero diaconale che riguarda voi diaconi permanenti che vivete un altro ministero per la Chiesa, cioè quello del matrimonio.

Abbiamo per adesso preso una figura di riferimento, poi dovremo progredire attraverso la Scrittura, per ora la nostra figura di riferimento è una coppia, quella di Abramo e Sara e dopo aver visto nei precedenti due incontri qualcosa che ha riguardato il loro rapporto di coppia e la diaconia, ancora questa sera ci soffermeremo su un aspetto molto importante: quello della loro sterilità e del loro concepire un figlio.

Come avete capito stiamo riprendendo quel tema che già abbiamo affrontato la scorsa volto volta, ma che sarà a commento di Genesi capitolo 18, che ora vi invito a prendere in mano e a rileggere, secondo la nuova traduzione della CEI.

Leggeremo il capitolo 18 della Genesi, almeno fino al versetto 15, poi farò un breve riassunto riguardo a quello che accade dopo. Quello che segue in apparenza sembra scollegato, ma non lo è, mi riferisco cioè alla distruzione di Sodoma e a quello che accade ancora dopo, più avanti e cioè al sacrificio , così chiamato, di Isacco che non è un vero e proprio sacrificio, perché vedremo che, nella teologia giudaica, non si parla di sacrificio, ma di “legatura”.



Genesi 18, 1a-15



Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo, potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo».

Quelli dissero: «Fa’ pure come hai detto». Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre “sea” di fior di farina, impastala e fanne focacce». All’armento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo.

Prese panna e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse a loro. Così, mentr’egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono.

Poi gli dissero: «Dov’è Sara, tua moglie?». Rispose: «È là nella tenda». Riprese: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio». Intanto Sara stava ad ascoltare all’ingresso della tenda dietro di lui.

Abramo e Sara erano vecchi, avanti negli anni; era cessato a Sara ciò che avviene regolarmente alle donne. Allora Sara rise dentro di sé e disse: «Avvizzita come sono dovrei provare il piacere, mentre il mio signore è vecchio!». Ma il Signore disse ad Abramo: «Perché Sara ha riso dicendo: Potrò davvero partorire, mentre sono vecchia? C’è forse qualche cosa impossibile per il Signore? Al tempo fissato tornerò da te alla stessa data e Sara avrà un figlio». Allora Sara negò: «Non ho riso!», perché aveva paura; ma egli disse: «Sì, hai proprio riso».



Parola di Dio



Per leggere questo testo e leggerlo nella chiave duplice, che ormai abbiamo imparato ad usare, ovvero quella del ministero diaconale che è centrale in questo testo, diciamo subito che è Abramo che prepara da mangiare. Vedremo che questo è molto importante per leggerlo anche nella chiave relazionale, infatti qui Dio deve dire una mezza verità per salvare il rapporto fra Abramo e Sara. Dobbiamo collocare il testo all'interno del suo contesto e cogliere quegli aspetti che in genere non sono immediati e sono per esempio di minore importanza nella tradizione cristiana. Come sapete noi facciamo costantemente riferimento alla tradizione giudaica, perché stiamo leggendo l'Antico Testamento.

Nella tradizione cristiana, questo brano viene generalmente interpretato alla luce della nostra fede trinitaria e i Padri della Chiesa vi hanno visto l'immagine di Dio che si presenta come un ospite che una volta parla ad una voce, un'altra volta sono tre uomini, un’altra volta uno se ne va, sembrerebbe proprio che questa scena riguardi il Signore, così viene chiamato, che si rivolge ad Abramo, mentre poi ci sono due angeli, si dice al versetto dopo: "Quegli uomini si alzarono e andarono a contemplare Sodoma mentre il Signore.. ". Quindi sembra che due si allontanarono mentre uno rimane, quindi sono tre... . Ecco queste sono preoccupazioni che il testo non ha. La lettura Cristiana del testo interpreta giustamente trovando un significato ulteriore che però il testo non ha in sé, perché il testo è preoccupato di ben altre cose.

Quale è il significato di questo racconto e perché? Che cosa stanno facendo questi tre, questo uno, quelli che sono? Perché sono andati da Abramo? Infatti la domanda dell'esegesi rabbinica è centrata su questo: "A che cosa si deve la loro visita?". Per cercare la risposta cerchiamo di collocare questo capitolo 18° nel contesto, ossia dobbiamo ricordare quello che succede prima e quello che succede dopo questo brano. Su quello che succede dopo ci soffermeremo un pochino più a lungo in seguito, perché dopo succedono due fatti importanti che sono collegati:



• la distruzione di Sodoma

• la legatura di Isacco (Gen 22, di cui dirò meglio).



Ma quello che succede prima è invece evidente perché ce lo dice Gen 17, 24 cioè Abramo è appena stato circonciso. Al versetto precedente, tre versetti prima, si dice: "Abramo aveva novantanove anni quando si fece circoncidere la carne del prepuzio". Ricordate che abbiamo parlato dell'offerta della genitalità di Abramo la scorsa volta. Ismaele suo figlio aveva 13 anni, ricordiamo che abbiamo discusso sulla tradizione musulmana legata proprio alla circoncisione dei bambini al 13° anno. "In quello stesso giorno furono circoncisi Abramo e suo figlio Ismaele e tutti gli uomini della sua casa, quelli nati in casa e quelli comprati con denaro tra gli stranieri furono circoncisi con lui"; è l'alleanza che abbiamo definito berit milhà, l'alleanza della circoncisione, diversa dall'alleanza delle Parti o dei Pezzi che abbiamo visto in Genesi 15.

Ecco perché Dio visita Abramo! Perché Abramo è ammalato! E' stato circonciso da adulto e come dice un'antica tradizione, cioè quella registrata nel Targum, quindi in un'antichissima traduzione in aramaico: "la gloria del Signore si rivelò ad Abramo nella valle di Mamre perché era infermo per il dolore della circoncisione e sedeva per questo alla porta della tenda nel caldo del giorno..".

E' molto bella questa idea di Dio che visita Abramo perché va a visitare gli ammalati, il terzo giorno dalla sua circoncisione perché il terzo giorno, come ci dice Gn 34, quando ci racconta un altro episodio di circoncisione. E cioè quando i sichemiti vengono circoncisi da adulti dagli uomini della città di Sichem e si dice che il terzo giorno, quando erano sofferenti, perché, come dice Gn 17, la carne del prepuzio crea maggiore sofferenza, il terzo giorno, dopo la circoncisione, è il peggiore, dice il targum e dunque Abramo è in un momento di sconforto e di prova ed è Dio che visita Abramo, perché Dio visita gli ammalati. Ecco che da qui viene una importante norma morale che è caratteristica del Giudaismo, ma che troviamo anche nelle tradizionali opere di misericordia riprese da Gesù, si trovano nel Libro di Tobia, ma sono riprese da Gesù in Matteo 25, come potete ricordare: “Ero malato e mi avete visitato….”.

Dice Rasci, il famoso rabbino commentatore medioevale : “Imitate Dio, Dio visita gli ammalati , fate come Lui: visitate gli ammalati” . E' molto bella l’idea di un Dio che visita Abramo a cui vuole così bene perché è il momento in cui soffre di più perchè ha stretto un’alleanza con Lui.

Ci sono altre interpretazioni anche meno belle e che dicono per esempio che Dio visita Abramo per avvisarlo dell’imminente distruzione di Sodoma, cioè per mettere al sicuro il nipote Lot e possa salvarsi. Tutto questo però sembra scollegato dall’esito di questa visita di Dio, cioè dall’annuncio della nascita del figlio di Sara che ormai ha novanta anni ed Abramo cento.

Un’altra domanda che ci si fa, è chi siano questi tre angeli: evidentemente vengono immaginati come i grandi arcangeli, cioè quelli che compaiono nella Sacra Scrittura: Michele che viene ad annunziare a Sara la nascita del figlio, Raffaele che è “medicina di Dio” ( ricordate il libro di Tobia), viene a curare Abramo, Gabriele che viene ad annunziare la distruzione di Sodoma.









Ma ancora una volta non sembra che ci sia alcun collegamento tra questa interpretazione e l’annuncio del figlio di Sara ed Abramo e allora perché sentiamo la domanda del v. 9 “dove è Sara tua moglie?”

Perché i primi 8 versetti di questo testo sono tutti dedicati all’accoglienza di Abramo che egli riserva a questi tre uomini, che diventa talmente proverbiale al punto che viene ripresa nel N.T. nella lettera agli Ebrei . In Eb 13,2, nella parte parenetica, l’autore dando le ultime raccomandazioni: “L’amore fraterno resti saldo e non dimenticate l’ospitalità, praticandola, alcuni, senza saperlo, hanno accolto degli angeli…….poi le classiche opere di misericordia. Nel greco “non dimenticate l’ospitalità” è molto più forte che in italiano. Questa parola non vuol dire semplicemente “siate ospitali”, ma non dimenticate la filoxemia. Sentite che la parola greca ha a che fare con lo xenos, cioè lo straniero, cioè l’amore per lo straniero. Questa parola la ritroviamo anche in Paolo in Rm12,13, dove nella parte parenetica verso la fine si dice:

“ Prendete parte alle necessità dei santi, cioè dei fratelli, praticate a gara la filoxemia, l’accoglienza dell’altro, dello straniero”. E’ la parola di Gesù in Mt 25,35, quando si dice: “Ero straniero (xenòs emèn) e mi avete accolto”. Questi angeli sono stranieri e vengono accolti e a loro viene data un’ ospitalità che dice la lettera agli Ebrei: non è solo ospitare degli angeli, ma è come ricevere “la gloria di Dio, cioè la shekinà. C’è un testo antico nel talmud nel foglio 127a dello shabbat dove si discute se sia più importante ospitare uno straniero oppure andare a studiare la Torah. Qui c’è una discussione e poi si conclude che è più importante l’accoglienza dell’ospite, dello straniero, proprio perché, e viene citato questo passo di Abramo, l’accoglienza dell’ospite, dello straniero è più importante perché vuol dire accogliere la shekinà di Dio, cioè la gloria di Dio, Dio stesso. Ecco perché di dice nel vangelo “ero straniero e mi avete accolto, ero straniero e non mi avete accolto”. L’accoglienza e l’ospitalità è tale che, nell’ interpretazione del Midrashim, Abramo costruisce un banchetto reale, più grande di quello che Salomone, a suo tempo, avrebbe offerto alla sua corte: è Abramo stesso a servire gli ospiti e la sua ospitalità viene talmente lodata che si aggiungono agli alimenti che abbiamo visto: pane l’armento, vitello, latte, panna, lo yoghurt, la panna, tutto questo è detto per dire che Abramo aveva preparato un banchetto degno di un re.

Qui c’è una bella discussione, che può sembrare capziosa, ma sulla quale, anche i padri della chiesa e non solo i rabbini, si sono interrogati.

Ma gli angeli hanno mangiato oppure no.

Anche nel libro di Tobia c’è lo stesso tema: ricordate che il vecchio Tobi, subito dopo che è divenuto cieco, affida al figlio Tobia la missione di recuperare del denaro che ha presso dei parenti lontani. Così Tobia è accompagnato nel viaggio da una persona esperta a cui viene promessa come ricompensa una parte del denaro recuperato. Ma lo strano accompagnatore che, alla fine dell’avventuroso viaggio ben conclusosi, si manifesta, era l’arcangelo Raffaele, che, dopo aver cacciato il demonio da Sara dopo aver guarito gli occhi del povero Tobi, si rivela per quello che è e dice , prima di scomparire, di essere Raffaele, medicina di Dio. Egli dice. “ ma non vi eravate accorti che io ero un angelo, io facevo finta di mangiare, ma non mangiavo”. E’ una bella preoccupazione legata al mistero di ciò che noi chiamiamo le realtà visibili e non visibili che non sappiamo definire bene; ancora questa tradizione è molto importante. Si dice nel salmo 78, 85 si dice che gli angeli mangiano, ma mangiano. Ma che cosa mangiano? Il pane degli angeli. Ma che cosa è il pane degli angeli nella tradizione giudaica? La manna.

Ecco perché Gesù, quando esce vittorioso dalle prove a cui viene sottoposto nel deserto dal demonio, secondo il vangelo di Marco e di Matteo, si dice che gli angeli lo servivano.

Perché nella tradizione giudaica si dice che Adamo, al principio della creazione, era vegetariano perché aveva ricevuto, come comando, quello di nutrirsi dei soli frutti della terra e, prima del peccato, erano gli angeli che lo servivano e gli portavano la manna dal cielo.

Solo dopo il peccato Adamo mangia la carne degli animali, perché l’armonia con la creazione si interrompe. E allora prima del peccato Adamo era servito dagli angeli. Un’altra tradizione ci dice che gli angeli non mangiavano perché si nutrivano della shekinà, cioè della presenza di Dio.

Qui invece si dice chiaramente che gli angeli mangiavano, al v.8 del cap.18. si dice: Così, mentr’egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono.

Voi vi starete domandando dove stiamo andando, dove vogliamo andare a parare: il dono del figlio è il dono per l’ospitalità ricevuta. L’ospitalità di Abramo è ricompensata da Dio con il dono del figlio. E chiamiamo questo concetto così:

Dio ospite che lascia il dono dell’ospite. Riflettiamo su questo.

Secondo un principio caro al giudaismo, e che poi troviamo nelle parole di Gesù,

“con il giudizio con il quale giudicate, sarete giudicati, con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi” (discorso della montagna: Mt 7,2) con questo principio caro al giudaismo e che si chiama “michdà cnech michdà” si vuole dire che Dio ricompensa chi compie atti di misericordia e di bontà verso gli altri con la stessa misura o meglio con una misura ancora più grande. Forse conoscete la commedia di Shakespeare, una commedia 604-603: “Misura per misura”, una storia legata a fatti di bontà e di generosità, ma anche di vendetta. Misura per misura può voler dire tante cose: può voler dire come nella legge del taglione che è un guadagno per la società, che non si può recare un’offesa più grande di quella ricevuta e questo è un vero passo avanti, perché è qualcosa che regola la convivenza civile. Infatti se andiamo alle origini, alla Genesi, Lamech dice che per un occhio è disposto ad uccidere.

Nella tradizione giudaica è spiegato come proprio per questo gesto di ospitalità che Abramo ha avuto verso Dio, Dio avrà cura di tutti i figli di Abramo fino alla fine dei tempi. Per questo gli Ebrei si vantano di essere figli di Abramo perché sanno che la propria stirpe avrà vita fino alla fine dei tempi e per questo gesto di ospitalità del loro padre Abramo loro avranno sempre di che vantarsi al cospetto di Dio.

In questa logica dell’ospitalità di Abramo è evidente che Dio che mangia, in questi angeli che mangiano e accolgono l’ospitalità di Abramo, Dio è ospite, Dio lascia se stesso essere ospite, oppure pensate in Ap 3,20 “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me.” in cui Dio, in Gesù, chiede l’accoglienza, oppure pensate ai discepoli di Emmaus, alla fine del vangelo di Luca, Lc 24,18, quando i due pellegrini, che ancora non hanno riconosciuto Gesù che è da loro compreso come uno straniero, pellegrino al punto che gli viene detto: “«Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?»

L’idea di un Dio, che accolga l’accoglienza e che si abbassi al punto da mangiare alla tavola, è un’idea meravigliosa che comporta questo ultimo livello, poi vediamo le conseguenze per noi che comporta finalmente il dono dell’ospite.

Prima però voglio dirvi del Corano. Nel Corano gli angeli non mangiano. Per esempio nella sura undicesima, sapete che il Corano spesse volte interpreta le tradizioni patriarcali bibliche, c’eravamo imbattuti in quella di Mosè che batte la roccia, le modifica e non coglie le sottigliezze. “Giunsero presso Abramo i nostri angeli con il lieto annuncio e gli dissero : “Salem, pace”. Rispose Abramo: “Salem e non tardò a servire loro un vitello arrostito. Ma, quando vide che le loro mani non si avvicinarono al vitello arrostito, Abramo si insospettì ed ebbe paura di loro.”

Aveva capito secondo il Corano che non erano uomini, ma angeli.

Invece qui è chiaro che questi angeli mangiano ed accolgono l’ospitalità del patriarca e questa logica è importante perché, solo in questa logica, gli angeli possono lasciare quello che in antropologia o in filosofia è chiamato: il dono dell’ospite. E’ un concetto molto importante che si ritrova per esempio nel mondo greco, lo si ritrova molte volte nell’Odissea e in moltissime culture orientali. Ebbene faceva parte di una regola comune condivisa quella per cui l’ospite, che veniva accolto, lasciava un dono di sé, in cambio dell’ospitalità ricevuta.

L’ospitalità è un rito importantissimo molto studiato ed è diventato un po’ il centro della filosofia post-moderna: cito autori moderni come Jacques Derrida, come Marion, che hanno elaborato concetti che erano stati espressi da autori esistenzialisti come Heidegger oppure come Emmanuel Levinas, quindi nasce anche nella filosofia ebraica moderna e contemporanea questa idea . Quale idea? Che si entra in relazione donandosi reciprocamente e accogliendo il dono dell’altro, donandosi reciprocamente.

Pensate quale grande differenza che c’è rispetto alla filosofia di Cartesio: il vedersi centrato come soggetto: io sono in quanto penso “cogito, ergo sum” e invece ragionare non in termini di solo sé stesso, ma di un “essere” per l’altro.

Potremmo dire: io ci sono, io esisto non perché penso (Cartesio), ma perché sono di fronte all’altro, ma perché sono in relazione , e sono come dono, o meglio ancora perché ricevo il dono. Mentre nelle relazioni commerciali lo scambio è legato ad un trasferimento di proprietà che è remunerato, cioè io la benzina ce la ho perchè ti ho dato dei soldi e una volta fatto questo scambio finisce la relazione, invece la condizione dell’ospite, scrive un bravo antropologo, esiste solo nello scambio dei regali, cioè l’ospite c’è non perché paga come l’acquirente, perché compra qualcosa, ma perché riceve e dona.

L’ospitalità ti obbliga, ma se l’ospitalità ti obbligasse vorrebbe dire che allora anche l’ospitante deve ricambiare. In certe famiglie, in certe relazioni potrebbe essere presente l’idea che se tu dai qualcosa a me, allora io devo ricambiare, guai a non ricambiare. Ma siamo sicuri che voglia dire questo l’ospitalità più originale, cioè il fatto che l’ospite lascia qualcosa, il suo dono, proprio perché è stato accolto?

No. Io direi proprio di no. Infatti quello che accade qui; il fatto che accade qui è che, dopo che essi ebbero mangiato, “quelli mangiarono” , subito dopo, al v.9 viene finalmente la domanda: “ Dov’è Sara, tua moglie?”. Ricordate una domanda simile esattamente allo stesso modo, quando nella Genesi Dio, non è l’angelo, ma il Signore che cammina nel giardino, interpella Caino chiedendogli: “Caino, dove è Abele, tuo fratello”, oppure quando Dio, dopo che Adamo ed Eva ebbero mangiato il frutto del giardino, Dio interviene dicendo: “Dove sei Adamo?”. Questa domanda vuol dire molto di più del significato della domanda in sé. Questa domanda porta poi che c’è un interesse, c’è qualcosa che sta per avvenire e che coinvolgerà Adamo, Caino e in questo caso Sara. Come se Dio fosse capace,( come Gesù nel dialogo con la Samaritana: “Dove è tuo marito?”), di entrare proprio per il fatto di aver mangiato con quella persona, di aver camminato nel giardino con l’uomo, perché ancora prima della domanda a Caino c’è la domanda che Dio fa ad Adamo, quando si è nascosto e gli dice: “Dove sei tu”. Questo per dire che in questa domanda “Dove è Sara?”c’ è molto di più che lo stare dentro la tenda a cucinare. E’ la domanda di Gesù: “dove è tuo marito?”, cioè come ti poni di fronte a questo?. Ebbene, proprio perché essi hanno mangiato e hanno accolto l’ospitalità e, dopo aver visto questa ospitalità, sono in grado di donare un figlio ad Abramo e a Sara. Infatti il dono che lasciano è questo: “ Tornerò da te tra un anno e a questa data Sarà avrà da te un figlio”.

Elaboriamo questi elementi e concludiamo.

Perché un dono sia “dono”, non è come diceva Silvana, cioè che deve essere, come dire, obbligato. E’ vero che nelle culture antiche è obbligato, non si può non lasciare, ma proprio perché noi lo accogliamo come un dono deve essere gratuito e direi qui inaspettato e che sia qui inaspettato lo si evince dal fatto che Sara non ci crede e si mette a ridere.

Sentite che Sara, come poi accadrà nelle altre matriarche nella Bibbia, di nascosto stava ad ascoltare, come fanno le donne, in particolare ci ricordiamo tra le matriarche Rebecca, moglie di Isacco, che ascolta il dialogo tra Esaù ed il padre Isacco. Questo permetterà che il padre benedica Giacobbe invece che Esaù. E’ un elemento caratteristico, ma questa donna che sta dietro la tenda ad ascoltare, ad un certo punto si mette a ridere dentro di sé. Perché Sara ride?

Sono state date tante spiegazioni. La più semplice: il nome Isacco, in ebraico, dal verbo zaffak (?) vuol dire ridere, infatti “Baptiz ak” “Ella rise”, rise perché così ricordava il nome Isacco che apparirà in Gn 17,19 appena già apparso. “Ti sarà dato un figlio di nome Isacco”. Il testo masoretico, cioè il testo ebraico, dice: “Sara rise dentro di sé dicendo: “Proprio ora che sono vecchia sarà per me il piacere, è un po’ la traduzione della CEI, e il mio Signore è vecchio. State attenti a questa parola perché è molto importante la moglie sta dicendo che Abramo è vecchio, perché Dio giocherà su questa cosa. La Bibbia dei “Settanta”, però la traduzione in greco, cambia il ragionamento e rafforza un’idea che dice dell’impossibilità di Sarà di avere un figlio e dice: “La cosa non è accaduta fino ad ora e il mio Signore è già vecchio”.

Perché Sara ride? Intanto Rasci dice che Sara ride tra sé e sé, ciò all’interno del suo corpo, perché era avvizzita. Cioè Sara ride non tra sé e sé, ma dentro di sé perché Sara si rende conto benissimo di non poter mai avere dentro di sé, all’interno del suo corpo, un figlio, perché era avvizzita.

Altri rabbini dicono che Sara ride in forma augurale; cioè Sara ride perché dice “ti ringrazio dell’augurio”, anche se è consapevole dentro di sé che non potrà mai avere un figlio.

Altri dicono che Sara ride e ringrazia l’ospite per l’augurio pietoso.

Invece c’è una bellissima interpretazione di un altro rabbino, Malbini, che dice che Sara ride di gioia perché ha ritrovato la giovinezza e potrà avere finalmente un figlio; infatti, quando in Gn 21,6 nasce Isacco, allora Sara disse: “Ohh! Dio mi ha dato motivo di ridere e, chiunque lo saprà, riderà per causa mia, perché se ho potuto avere un figlio a questa età, chiunque sentirà questa cosa riderà (la CEI traduce di me) a causa mia”.

Ma non è qui la spiegazione. La spiegazione è evidente: questo testo ci vuole sottolineare che non era possibile che Sara potesse avere un figlio e che anche Abramo potesse generare. Dunque il dono è dono quando è inaspettato, gratuito ed arriva nel momento in cui non ci si spera più.

Solo quando non ci si spera più, e Sara è in questa condizione, il dono può essere accolto come tale.

Sentite un’ultima finezza: nel dialogo che abbiamo ascoltato, “Sara rise dentro di sé”, questo riguarda la relazione di coppia; Sara dice due cose: “ avvizzita come sono”, dice la Bibbia dei Settanta, “fino ad ora non ho avuto i figli”, oppure dal testo ebraico “dovrei ora provare il piacere” poi aggiunge “e il mio Signore è vecchio”. Anche Abramo, come dire, entra dentro questa storia di impossibilità costitutiva e però, quando il Signore parla ad Abramo, subito dopo al v.13 e gli riporta le parole che ha udito da Sara, sentite cosa dice il Signore ad Abramo: “Perché Sara ha riso dicendo: potrò davvero partorire ora che sono vecchia?” Che cosa ha fatto Dio?

Ha detto una mezza verità. Ha illuminato quello che ha pensato Sara: io sono vecchia, non ho avuto figli fino ad ora e mio marito non ce la fa più per questa cosa . Dio ha eliminato una parte di quello che pensava Sara e cioè il fatto che suo marito non ce la fa più.

E i rabbini commentano che il Signore, per riguardo alla pace della famiglia, e per non offendere Abramo (ossia Sara aveva pensato di essere vecchia e che il marito non ce la faceva) Dio non riporta tutto il pensiero di Sara e non dice niente dell’incapacità di Abramo.

E’ così importante la pace tra marito e moglie che il Signore tace una parte del pensiero di Sara e questa pace la preferisce all’intera verità e dice soltanto: “Perché tua moglie ha pensato di essere vecchia?”. Questo è interessante perché ci dice come in questo testo siano implicate anche delle dinamiche che riguardano la coppia e la sterilità di coppia, ossia il fatto che la coppia, per esempio, cerchi qualcosa come abbiamo visto e commentato nelle passate meditazioni e lo cerchi fino in fondo con tutte le possibilità, ma che finalmente arrivi il dono quando ormai non c’è più nulla da sperare.

Io vi ho raccontato due fatti di coppie sterili, che non hanno avuto figli dopo dieci anni di matrimonio e, quando io ho suggerito: “attrezzatevi per adottare un figlio”, quando questa coppia si è resa disponibile all’accoglienza di un bambino non nato da loro, la donna è rimasta incinta.

Io, per esempio, sono figlio del miracolo: perché mia mamma si sposò tardi, già matura, come mio papà, mio papà aveva 49 anni quando sono nato io, ma soprattutto provarono per diversi anni, fino a che andarono dal ginecologo e ricevettero una risposta categorica dal medico: “lei non potrà mai generare un figlio, adottatene uno, se proprio volete un figlio”. Mia madre mi ha raccontato di una grande sofferenza vissuta. Quando avevano perduto ogni speranza è arrivato il dono inaspettato: è arrivata mia sorella e poi io.

Cosa ci vuol dire questo testo che parla della sterilità di questa coppia che non riesce a generare e che non genera fino a che non accoglie qualcuno?

Innanzi tutto ci dice l’importanza della diaconia dell’accoglienza, perché se non si accoglie qualcuno, non si entra in dialogo. Questo è interessante e potete vederlo per conto vostro. Sembrerebbe evidente dal testo che Abramo non ha parlato a Sara della promessa fattagli da Dio, cioè Sara non lo sa, perché questa venuta dei tre angeli sembra davvero rivolta a Sara, anche se Sara ha ascoltato di nascosto, ma questo vuol dire che Sara non aveva sentito o capito o non gli era stato detto quello che nel patto dell’alleanza della circoncisione Dio aveva promesso ad Abramo: “Tu avrai un figlio”. Vuol dire che il dialogo tra Sara e Abramo era stato interrotto a causa della sterilità. Invece quando si riavvia questo dialogo? Quando arriva l’ospite.

Ma adesso avviamoci alle conclusioni:

1° conseguenza di questa lettura: Sodoma viene distrutta dal fuoco e dallo zolfo, perché non accoglie l’ospite. Abbiamo spesso accusato Sodoma e giustificato la sua distruzione per i peccati di sodomia, invece, in questo racconto e nella percezione giudaica, è la mancanza di accoglienza nei confronti dell’ospite la causa della sua distruzione.

Se rileggete bene il testo, Lot non è stato ben accolto a Sodoma e tanto meno gli ospiti di Lot. Nella percezione giudaica e nel racconto il peccato è dovuto alla mancanza di rispetto e alla non accoglienza dell’ospite. Né Lot e tanto meno gli ospiti, che sono entrati questa notte in casa sua, sono ben voluti dagli abitanti di Sodoma che chiudono le porte e non vogliono che nessuno entri e alberghi nella loro città. Se qualcuno arriva da fuori, la deve pagare. Dicono a Lot: “Questo individuo, che si è permesso di accogliere due stranieri, è venuto qui come straniero e vuole fare il giudice, ed ora pretende di ospitare altri due stranieri, ma ora ti faremo vedere noi”. Ecco perché vogliono sodomizzare gli ospiti, ma questo è un aspetto marginale; Sodoma è distrutta perché non è capace di accogliere l’allogeno, lo straniero, come invece fa Abramo nella sua tenda e per questo egli riceve il dono dell’ospite.

Se tu non accogli l’ospite non solo non hai il dono, ma ricorda che Sodoma è stata distrutta con il fuoco e con lo zolfo.

Questo che ci viene detto è molto importante per noi, che ci troviamo in questa società che non accoglie e non rispetta lo straniero, come ha detto il cardinal Tettamanzi: “Bisogna stare attenti a come trattiamo lo straniero, perché così saremo ripagati”. Quando dico straniero mi riferisco a tutti e in tutti i sensi, ovvero a qualsiasi persona sia “altro” rispetto a noi.

2° conseguenza di questa lettura. Questo dono ricevuto, il regalo dell’ospite, ad un certo punto, ha due prerogative:

a) il regalo dell’ospite, come dice lo studioso Bahar, deve essere assolutamente gratuito e deve rompere il rapporto di scambio. Questo postulato, come scrive Bahar, si rivolge contro ogni calcolo e movente.

Perché Dio dà questo figlio ad Abramo? Perché gratuitamente lo dà nel momento in cui sembrerebbe che non possano più riceverlo.

b) Il regalo dell’ospite non deve mirare ad una retribuzione, né compensare un qualunque vantaggio: è un dono perché è un dono e lo si può accogliere solo e soltanto come un dono.

Se invece lo si cerca come ricompensa non ti viene dato. Però, attenti, perché da ciò ne discendono due principi fondamentali:

- il primo: e allora come farai a ricompensare l’ospite che ti ha dato il dono, in questo caso il figlio. Il primo modo di ricompensare l’ospite, quando l’ospite se ne va è la memoria. E la prima possibilità è che, se questo scambio tra l’ospitante e l’ospite deve essere gratuito, è chiaro che l’ospitante Abramo non può più dare nulla in cambio per quello che ha ricevuto, ma può contraccambiare restituendo attraverso la memoria. Ecco che ancora questo antropologo dice: “ La memoria è la continua restituzione. Attraverso questo si esprime il fatto che lo scambio non avviene in modo circolare, non si bilancia, cioè io non posso restituire, ma posso solo fare memoria. Pensate a quel salmo che dice: “che cosa darò al Signore per quello che mi ha dato?” Come potrò io dare qualcosa in cambio? Niente, potrò solo fare memoria, alzando il calice della salvezza. E qui Bahar parla della relazione di restituzione tra padre, madre e figli. Come fa un figlio a restituire al padre e alla madre, che non ci sono più, quello che ha ricevuto come un dono gratuito che non può essere restituito: l’unico modo è la memoria.

- Il secondo. Qui arriviamo ad un punto che è ancora più complicato nel viverlo, ma chiarissimo ora che ve lo dico: in fondo, se il dono è davvero un dono e se dunque Isacco è davvero un dono inaspettato, perché sia veramente tale, deve essere poter restituito anche esso. Ecco perché, dopo queste cose Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo prendi tuo figlio, il tuo unico figlio, quello che ami, Isacco, e offrimelo sul monte che ti dirò”. Ecco perché io ritengo che, tra tante cose che si possono dire sull’Akedà, sulla legatura di Isacco, quella che funziona di più è che Dio chiede ad Abramo di accogliere questo figlio come un dono, al punto da poter essere distaccato da lui per poterlo di nuovo accogliere come un dono perenne e continuo.

Se volete è la stessa idea che è nascosta nella conquista della terra di Canaan. Qualora Israele dovesse ritenere che la terra di Canaan è una sua conquista e non l’accogliesse invece come un dono, allora la perde. Allo stesso modo quando Abramo e Sara arrivano a ritenere e a guardare il figlio Isacco come proprio e non riconoscono più che è un dono di Dio, lo perdono.



Abbiamo spunti sufficienti per avviare una nostra riflessione. La prossima volta non parleremo solo della legatura di Isacco, ma anche della morte di Sara, la quale, secondo la tradizione giudaica, avviene quando apprende dell’offerta che Abramo deve fare di Isacco. E vedremo che, secondo l’interpretazione giudaica e nella lettera agli Ebrei, Isacco muore veramente, perché il sacrificio è stato fatto, anche se continuerà a vivere. Ne parleremo e vedremo perché i rabbini dicono questa cosa.



Questa sera abbiamo toccato due aspetti:

- quello della relazione tra marito e moglie, della loro dimensione di sterilità e generatività che discende soltanto da un dono, che può essere fatto soltanto da Dio.

- Quella dell’accoglienza che porta con sé la gratuità di poter ricevere qualcosa di impossibile, insperato e inatteso.

Ci ritroviamo la prossima volta, il 9 di gennaio, e a quelli che vanno via facciamo gli auguri di Natale.

Noi ci rivediamo qui alle 17,15 per le nostre riflessioni.

Aggiungo una riflessione dei rabbini che prima ho dimenticato: quando Sara dice a Dio: “Io sono sterile e fino ad ora non ho avuto figli e il mio Signore è troppo vecchio” Dio risponde ad Abramo: “ Ma sono forse troppo vecchio io per poterti dare un figlio, sono io troppo vecchio per fare miracoli”: Mentre Abramo dice la proprio impossibilità, Dio invece dice la propria possibilità.

Fra l'altro volevo comunicare che mi hanno chiesto di fare una pubblicazione di queste meditazioni, potrebbe valerne la pena, mettendole insieme potrebbe esserci un taglio interessante perchè la dimensione del servizio della coppia, difficilmente viene trattata. Naturalmente i testi andranno rivisti.





Spiritualità - Padre Giulio Michelini



Meditazione del 9 gennaio 2010 – Infanzia di Gesù



Quello che vorrei proporvi oggi è molto semplice, dunque faremo una rilettura dei testi che abbiamo letto in questo tempo di Natale, cercando di coniugarli con il percorso che noi stiamo facendo nel significato della diaconia (cioè di quel servizio fatto a due livelli: il ministero dei genitori, e il ministero dei diaconi).

Non usciamo dal nostro tema sulla diaconia perché in fondo salvare quel bambino che è Gesù significa salvare quell'Isacco di Abramo.

In questi giorni ridevamo con Paolo perché abbiamo diversi presepi qui in convento e c'è un bellissimo bambinello del 700 che abbiamo messo sotto l'altare, però lo togliamo quando non c'è nessuno, allora la prima volta che ho chiesto a Paolo di toglierlo da lì lui ha messo un foglio: "L'ho preso io il bambino!"che sembrava una richiesta di riscatto e c'erano Giuseppe e Maria, il papà e la mamma che custodivano la culla abbandonata e vuota.

E' vero, c'é questa dimensione che riguarda tutto il clima del tempo di Natale e che riguarda anche i testi del nostro lezionario di queste feste. Così come di per sé anche Isacco è in pericolo sin dall'inizio, perché in primo luogo rischia di non nascere, e questa è la dimensione più grave di cui abbiamo parlato la scorsa volta. Se ricordate, abbiamo parlato della sterilità, perché in questa famiglia la promessa, che deve essere quella di uno sbocciare di vita, non si attua mai, fino a quando Dio dà una parola, che è una parola di speranza e Abramo crede e allora Sara, nonostante il suo ridere, che è un riso probabilmente di gioia, allora concepiscono un figlio.

La stessa cosa accade per il bambino Gesù il quale, potremmo vedere in questi brani che rileggeremo brevemente ma che conosciamo bene, rischia davvero di essere perduto.

La Sacra Famiglia è una famiglia davvero in pericolo! Questa dimensione è sottolineata in modo blando da Luca, ma in modo molto più esplicito da Matteo. Faccio notare a tutti che gli esegeti, da tempo, hanno avanzato l'ipotesi che questo bambino dodicenne, che si perde per tre giorni nel tempio, potrebbe essere un richiamo (anche se Rosset ed altri non sono d'accordo) ai tre giorni della morte del Signore nel sepolcro. Gesù non viene trovato dalla sua famiglia, dai suoi amici, dai suoi discepoli; cioè, nei racconti del Natale, c'è anche in Luca una dimensione chiara di richiamo ad un dramma, se non ad una vera e propria tragedia che è quella della perdita del figlio, dell'amico, dello sposo: "Dove l'hanno messo" dice Maria nel vangelo di Giovanni, pensando al cadavere che cerca, "dov'è il nostro figlio" avranno detto Maria e Giuseppe nel racconto lucano.

Questi tre giorni dunque potrebbero avere una chiave interpretativa simbolica, un'allusione spirituale di questo tipo.

Matteo invece è molto esplicito: questo bambino è veramente in pericolo, rischia di non nascere, perché Maria, secondo la Legge, avrebbe dovuto essere addirittura lapidata. Questo bambino rischia di essere perduto perché Erode lo vuole sopprimere, Gesù rischia di perdersi in Egitto. C’è quindi un triplice rischio che vive questo bambino. E non dimentichiamo che si tratta di una famiglia di emigranti, come ha detto anche di recente il Papa. Ricordo a tutti che in Sicilia è stato fatto un presepe dalla caritas diocesana dove non sono stati messi i Magi (è stato fatto con l'autorizzazione del Vescovo), è stato messo un cartello: "I magi quest'anno non sono venuti, sono stati fermati alla frontiera perché extracomunitari". Questo tema è molto attuale, la famiglia di Gesù che deve emigrare, ma questa dimensione del pericolo in cui versa Gesù e la sua famiglia si capisce chiaramente dai sogni di Giuseppe che vengono compiuti proprio perché questo bambino si salvi; primo perché si salvi la madre, e quindi si salvi la relazione tra Giuseppe e Maria per cui Giuseppe sogna che questa donna è innocente e vale la pena che sia sposata. Così Giuseppe, grazie a questo sogno, sposa Maria, la prende, non si separa da lei, si salva la loro relazione grazie a Dio.

Proprio per questo fatto, il bambino può nascere, ma è in pericolo per Erode e per questo c’è il secondo sogno di Giuseppe che lo invita a fuggire in Egitto. Così Gesù si salva per la seconda volta. Ma in Egitto questo bambino rischia il pericolo più sottile, ma non meno grave, quello dell’assimilazione e allora nuovamente l’angelo si manifesta a Giuseppe e lo invita a tornare a Nazaret perché Erode è morto e quindi deve essere riportato nella sua terra perché possa compiere la sua vocazione nella terra della promessa.

Ricordate che l’Egitto è un luogo di salvezza dove si rifugiano i patriarchi quando c’è la carestia. Per es. Giuseppe, figlio di Giacobbe, arriva in Egitto perché viene venduto, e perché lì deve preparare l’arrivo della famiglia. Ma questa famiglia, che viene accolta in Egitto, dove si salverà dalla carestia che imperversa in Israele, in Egitto rischia di perdersi. Di perdersi in che senso?

Non tanto per la schiavitù, noi siamo abituati a leggere l’Esodo, che avviene qualche centinaio di anni dopo, come una liberazione, come l’uscita dalla schiavitù d’Egitto, ma ,nei testi rabbinici, l’esodo viene interpretato come la fuga dalla perdita della propria identità. Ossia Israele in Egitto rischia di assimilarsi e quindi di non essere più il popolo del Signore e quindi cosa deve fare Dio?

Lo deve trapiantare. Dice la scrittura “una vigna trapiantai dall’Egitto”, anche se fioriva là. Ricordate cosa dice la Scrittura nell’Esodo? Che questo popolo prosperava, che i bambini nascevano, le donne ebree erano molto forti e fertili, era un popolo fiorente, anche se era un popolo che piangeva per il lavoro forzato.

Ma questo popolo non aveva la propria terra, perché, la promessa fatta e rinnovata ai patriarchi,era quella di vivere nella terra di Israele. Dunque capiamo gli ultimi due sogni di Giuseppe, sposo di Maria, che dicono: “Bisogna ritornare a casa, perché quello è il luogo dove deve crescere questo figlio, che sarà chiamato Nazareno”. Allora, in questa dimensione di pericolo, noi riconosciamo lo stesso servizio di custodia, pensate al titolo tradizionale di “custode” che viene dato a Giuseppe, che viene fatto all’interno della famiglia, ma diremo anche della società da parte di chi compie questo stesso ruolo dei genitori di Gesù.

E’ un servizio speciale che attiene, come dicevo all’inizio, alla vostra specifica vocazione, voi che vivete il ministero ordinato e le spose lo condividono, ma nel diaconato, e che non deve essere in alcun modo disprezzato.

Come Maria e Giuseppe sono potuti intervenire per salvare questo figlio, così allo stesso modo salvare una vita, salvare i vostri figli comporta compiere questo stesso identico gesto, dunque è un servizio fondamentale.

Noi cristiani siamo l’ultimo baluardo, oggi, diremmo in questo mondo che rischia e già sta perdendo qualsiasi riferimento a riguardo della vita, siamo, dicevo, l’unico baluardo per dichiarare che cosa è la vita e che questa deve essere rispettata dal concepimento fino alla sua morte naturale. E questo servizio lo capiscono bene i genitori, come i genitori di Gesù, come i genitori di Isacco, come essi stessi che hanno custodito il loro figlio di fronte a qualsiasi pericolo. Il pericolo che ha avuto Isacco di morire, come dice Genesi 22, anche Isacco ha rischiato non solo di non nascere, come dicevamo prima, ma addirittura anche di morire. Qui c’è un rapporto che dobbiamo elaborare tra la vita di Isacco in relazione a Dio e quella in rapporto alla sua famiglia.

C’è un altro compito che svolge la famiglia di Gesù che è quello dell’educazione, tanto importante quanto quello della salvaguardia, della vita: la “custodia”.

Di questo viene detto nel vangelo secondo Luca. Questo evangelista insiste molto su queste figure Giuseppe, Maria e Gesù ripetendo espressioni come “per compiere la legge” “secondo la legge” capitolo 2° di Luca.

Questo figlio viene portato per ben due volte al tempio, e questo è un chiaro esempio di come la fede viene trasmessa da questi gesti che non sono solo parole, ma che sono gesti che si concretizzano in rituali. Ecco il rito in famiglia è uno dei modi in cui si acquisiscono i valori, e questo bambino impara, come gli altri bambini, guardando i propri genitori e il loro atteggiamento religioso.

I nostri vescovi, nel decennio precedente, ci hanno fatto riflettere sulla trasmissione della fede e giungiamo alla conclusione che la fede si trasmette non solo nelle parrocchie, attraverso i catechisti, che svolgono un ruolo importante di perfezionamento, ma la fede si trasmette in modo naturale, come i bambini imparano da papà e da mamma ad andare in bagno, a camminare, a stare a tavola e a fare tutte le cose nel corso della loro crescita. Lo stesso atteggiamento religioso si impara così. Ecco perché Luca insiste molto nel dire che Maria e Giuseppe adempivano la legge. E’ chiarissimo in Deuteronomio 6: tu, queste cose le ripeterai ai tuoi figli, le metterai sulla loro fronte, sulle loro braccia, perché se non salverai queste Parole tutto il resto non servirà loro a niente..

Ecco perché Luca ci ripete questi due rituali fondamentali nel mondo giudaico:

- il primo, quello della circoncisione (berit , cioè dell’alleanza nella carne) , così che quando sarà in grado di capire il figlio possa chiedere ai genitori perché io porta questo segno e i genitori possano spiegarlo trasmettendogli la fede.

- Il secondo rito di passaggio della fede, che è un rituale che si svolge al tempio, è quello del “bar mitzvah”. Gesù dodicenne viene portato al tempio di Gerusalemme e lì si perde in occasione del suo ingresso nella comunità di Israele come figlio dei precetti. Dice Luca che aveva 12 anni, il che non è casuale, perché un bimbo ebreo a dodici anni deve aver imparato a leggere la Torah e la deve proclamare per la prima volta davanti a tutta l’assemblea e dal momento che la legge e la capisce ne diventa “bar” cioè figlio della Torah. Questo è il segno che la sua vita sia una vita non solo “custodita” in senso materiale, ma che riceva un imprinting, un’impronta , cioè una vera e propria educazione con le parole, con l’esempio, con la ritualità. Guai se mancasse questo nella vita dei nostri figli, daremmo ai nostri figli solo il pane. Questo è importante, ma non è sufficiente, perché non di solo pane vive l’uomo, ma anche da quello che esce dalla bocca di Dio. Un figlio si aspetta dai genitori un servizio che non sia solo il pane, il servizio per la prima volta si esercita nella famiglia.

Questo è quello che fanno gli ebrei e noi credenti dobbiamo smettere di pensare che i nostri figli possano essere educati dall’ora di religione, che è cosa buona, ma non basta. La comunicazione della fede non avviene per DNA, ma perché qualcuno te l’ha donata, trasmessa, è un dono che avviene per via di comunicazione, e i primi comunicatori della fede sono i genitori. La fede non avviene per via aerea. Tanto che Pietro è beato perché non ha ricevuto questo dono, ma bensì perché l’ha ricevuto da Dio nel riconoscere in Gesù il Cristo, il Messia. Matteo 16, 16-17.

Questa è una dimensione di cui la Chiesa deve prendere coscienza e deve sviluppare. Ma intorno alla famiglia di Gesù viene svolto un ministero importante anche altre figure.

La psicologia ha dimostrato che i genitori non bastano, in particolare in un contesto e in una lettura sistemica della famiglia noi sappiamo che nella famiglia ci sono anche altre figure importanti, che sono quelle che entrano in relazione con i genitori nell’ambiente educativo e che ci riportano alla dimensione della famiglia di una volta che adesso è molto più difficile vivere, perché ora la famiglia è più parcellizzata, una famiglia ristretta.

Quando c’era la famiglia patriarcale, allargata, la solidarietà educativa permetteva che diverse funzioni venissero espletate da figure che interagivano con i genitori e creavano un ambiente di protezione e di aiuto, soprattutto per le persone più deboli per le persone fragili, e di educazione.

E qui avviene uno scambio interessantissimo in questi racconti che riprendiamo e che ha a che fare proprio con un ministero che è quello importante e speciale delle testimonianze. Il gruppo allargato è duplice: uno, è formato dalla famiglia allargata di Gesù, Giovanni, ce lo dice; solo Luca, ci dice che era cugino di Gesù, perché Maria è parente di Elisabetta, madre di Giovanni Battista.

Questa notizia non la possiamo cogliere dagli altri vangeli, ma a parte questo, ci sono delle figure nei racconti del Natale che dimostrano una partecipazione di un ministero nei confronti del Bambino che si svolge a molteplici livelli.

Primo, ci viene ancora da Luca, sono i pastori, il secondo sono i maghi e vengono da Matteo, il terzo ce lo dà ancora Luca che sono i profeti: Simeone e Anna. Sono figure che ci dicono come la fatica di compiere la propria vocazione di Maria e Giuseppe viene supportata da queste figure. Perché la fatica?

Perché tutti abbiamo presente quel versetto del vangelo di Luca , allorquando Maria e Giuseppe hanno portato Gesù a Gerusalemme per la Bar mitzvah, dove si dice che la madre e il padre di Gesù non capivano il Figlio e siamo a Luca 2,50. Non capiscono quello che il figlio dice, siamo di fronte al dramma di due genitori, che ,pur vivendo la propria genitorialità in modo maturo, non riescono a capire più quello che sta succedendo. Ecco che arriva un altro ministero, svolto da altre figure potremo dire esterne che aiuteranno Maria a custodire queste cose nel suo cuore, cose che capirà nel futuro, alla fine.

Partiamo dalla figura del Battista, che è significativo perché fa parte della famiglia allargata di Gesù, se Luca è veritiero. Ed ecco che scoppia la prima bomba: non si è mai sentito che un figlio di sacerdote non diventi sacerdote, perché il figlio di un sacerdote deve essere un sacerdote. Ebbene Luca ci dice chiaramente che il figlio di Zaccaria, Giovanni, non si trova nel tempio come sicuramente il papà gli avrà insegnato, ma egli ha lasciato la propria famiglia per andare nel deserto, andando contro tendenza. Egli va ad annunziare la venuta del Messia e ciò deve essere stato, per la gente di quel tempo, un forte richiamo per tutti ed è una delle ragioni per cui ritroviamo Gesù nel deserto.

All’interno di questa famiglia allargata Giovanni è andato in contro tendenza, perché questo bambino, che doveva diventare sacerdote, non sta nel tempio, ma va nel deserto. Giuseppe Flavio ci parla di Giovanni Battista come di un uomo giusto,che aveva lasciato un segno e che aveva colpito per aver tradito la propria vocazione secondo la tradizione ebraica.

Poi ci sono le profezie: la prima quella dei pastori, che sono figure molto povere e fanno quello che possono, ma arrivano al momento giusto. I pastori sono figure presenti solo nel vangelo di Luca, ma che Luca ama.

Sono figure molto eccentriche, perché i pastori erano persone disprezzate, che non potevano leggere la parola di Dio, dunque se non potevano leggere la Parola di Dio e la Torah voleva dire che erano dei poveracci, eppure sono loro che possiamo immaginare che vanno a dare una testimonianza ai genitori di Gesù e li aiutano. Li aiutano a capire ancora una volta il senso di quello che sta accadendo perché, dice Luca si stupiscono delle cose che i pastori dicono loro. Sentite che si tratta di quelle figure familiari o della cerchia parentale o delle relazioni che intervengono magari in un momento di fragilità della famiglia e danno una buona parola. Non è detto che abbiano portato formaggio o capretti o gli altri doni che la tradizione mette nei presepi, ma si dice soltanto che vennero e riferirono a Giuseppe quello che avevano sentito dall’angelo. Mi sembra che sia un vero e proprio aiuto che portano, persone semplici umili e disprezzati danno anche essi un contributo perché questo bambino si salvi e cresca al punto che Maria comincia a meditare queste cose nel suo cuore. I pastori fanno la loro parte, così come la fanno Simeone ed Anna. Sono questi dei testimoni preziosi perché aiutano Giuseppe e Maria, in quella situazione difficilissima che devono aver vissuto il padre e la madre di Gesù, ad inquadrare nella fede quello che di straordinario stava succedendo.

E qui davvero troviamo Simeone ed Anna, due figure misteriose che non sappiamo da dove vengano e che forse hanno a che fare con una tradizione giudaica molto misteriosa, scusate la ripetizione. Dico soltanto due accenni. Primo: io non penso a un Simeone vecchio, non è detto da nessuna parte che Simeone sia vecchio, anzi penso ad un giovane che, nella costruzione di Luca di questi racconti dell’infanzia, egli benedice la famiglia di Gesù. Quindi Simeone, benedicendo, compie un gesto epicletico-sacerdotale, penso ad un giovane che dice una cosa importante, mentre tiene tra le braccia Gesù. Le sue parole sono una parola di conforto per Giuseppe e Maria, non solo perché dice bene del loro figlio, dice che sarà la salvezza per tutti i popoli, che sarà la luce e la gloria del popolo Israele e aggiunge che ora può anche morire in pace, perché ha trovato tutto quello che gli serviva, ora ha trovato un senso alla sua vita. Ma, come tutti i profeti, aggiunge una cosa che porta dolore e parla di una spada che trafiggerà il cuore di Maria cioè profetizza sofferenza per la Vergine.

Poi c’è questa figura misteriosa, sulla quale ha lavorato un bravo esegeta Michele Remeau. Questa donna arriva e riconosce Gesù e sembra proprio che svolga il suo ministero come nonna e ci dice di una famiglia che ha bisogno anche di figure non produttive, ma che hanno un ministero di servizio importante che è quello della preghiera e del digiuno. A me Anna ricorda per esempio mia nonna , che aveva l’artrosi e che era sempre seduta con il rosario in mano e non ricordo altro di lei e pensate se una figura così non abbia potuto non influire sul mio ministero.

Michele Remeau punta l’attenzione sul fatto che la tribù di Aser non esiseva più al tempo di Gesù, perché dopo l’esilio le uniche tribù che restano sono quella di Levi e quella di Giuda da cui nascerà Gesù.

La tribù di Aser non esisteva più, allora non si capisce perché Luca ci dica che Anna era della tribù di Aser e della famiglia di Fanuele.

La chiave allora è questa: quando Mosè va dal popolo di Israele per condurlo fuori dall’Egitto, secondo il comando del Signore, non trova credito presso il suo popolo, fino a che una profetessa della tribù di Aser, legata alla famiglia di Fanuele, non riconosce in lui l’inviato di Dio.

Cioè Mosè, figura messianica, è accreditato da questa donna anziana della tribù di Aser e della famiglia di Fanuele. Ora, come Luca dice, questa donna di nome Anna è molto vecchia, Luca lo ripete per ben due volte, e serve il Signore nel tempio notte e giorno pregando e digiunando. L’anomalia di questo testo porta Michele Remeau a pensare che si trattasse di una figura reale, ma come di una figura misteriosa, che c’era nella tradizione giudaica, di questa donna che non sarebbe morta dal tempo di Mosè, perché avrebbe dovuto riconoscere il Cristo di Dio. E questo è molto interessante, questa ipotesi è toccata da molti perché due sole erano le tribù sopravvissute dall’esilio, ma non si capisce perché Luca voglia darci questa tradizione. In ogni caso anche Anna “si mise a lodare Dio e parlava del Bambino”, quindi anche lei compie un gesto profetico e riconosce in Lui l’inviato di Dio e questo avrà rafforzato la fede dei genitori, i quali tornano a Nazaret. E là cresceva in età, sapienza e grazia.

Ma c’è un servizio particolare, l’ultimo di cui vi parlo, che è quello dei maghi e qui devo dire qualcosa che spero non vi scandalizzi.

I maghi, come abbiamo visto nella recente festa dell’Epifania, sono stati interpretati, soprattutto nella tradizione medioevale della Chiesa, come figure di stranieri che prefigurano i gentili, cioè i pagani che vengono da Gesù per adorarlo, mentre l’Israele di Dio rimane fermo a Gerusalemme con Erode e con i sapienti. Il papa all’Epifania ci ha dato una chiave molto bella, e cioè che questi maghi (io li chiamo maghi, perché la CEI ogni volta che trova la parola “magoi” li traduce maghi, quindi io non vedo perché qui si dovrebbe fare diversamente). Il servizio che compiono questi maghi, secondo questa lettura, che la chiesa ha avallato e che il papa ha rafforzato, è quella di cercare Dio come possono.

Questo è interessante: chi sono queste figure? Loro utilizzano quello che hanno: la loro ragione, il loro scrutare le stelle, della scienza, diremmo noi, di interpretare la realtà, cogliendo i segni della natura. Di questo dà testimonianza san Francesco quando a proposito della natura dice: “di te porta significazione il sole e tutta la creazione”. Il Concilio Vaticano I stabilisce che si può raggiungere Dio attraverso la ragione, cioè di fronte al cosmo e alla creazione tu non puoi non porti la domanda: “chi è il creatore di tutto questo” e hai sufficienti elementi per rispondere. E quindi questi maghi arrivano dall’oriente come possono, ma poi, dice il papa ovviamente, si fermano lì. Perché non possono andare oltre perché la stella scompare e allora serve il servizio della Parola. Chi dà il servizio della Parola? Gli scribi.

Vi ricordate che i maghi arrivano a Gerusalemme, ma non c’è più la stella e allora servono coloro che conoscono la Parola di Dio. Questi maestri finalmente sono capaci di dire che esiste una profezia e quindi il luogo è Betlemme. E qui Benedetto XVI ha ragione a dire che la fede aggiunge qualcosa, non toglie niente alla ragione, permette di proseguire il cammino ed è un servizio che chi non ce lo ha può solo riceverlo da chi ce lo ha. Questo aiuto, la Parola, può essere data solo quando ti viene richiesta, ma pensate se gli scribi non avessero potuto dare questa indicazione, se avessero detto “aspettate, vado a guardare su Google” oppure “non lo so, tornate la prossima volta” oppure non “sono sicuro”. E invece no, ci dice Matteo che gli scribi danno un’indicazione precisa: è a Betlemme che si deve verificare questo evento. E questo capite che, rispetto agli altri elementi che abbiamo analizzato relativamente all’infanzia di Gesù, è un elemento significativo perché ci dice che questi scribi intervengono in modo positivo, perché hanno studiato e passano la loro vita a studiare le Scritture. E’ la testimonianza che arriva al tempo opportuno come aiuto ai lontani, ai pagani, agli stranieri. Ecco io accetto tutto questo, soprattutto questo passaggio dagli astri alla Parola, ma non sono sicuro che fossero pagani o stranieri. Non c’è nulla, nel testo di Matteo, che ci dica che questi maghi fossero stranieri, anzi: abbiamo un elemento importante nel libro del profeta Daniele, al capitolo secondo e poi anche in seguito, dove si dice che Daniele, questo giovinetto, tanto sapiente e bravo, capace di interpretare i sogni, era tanto sapiente tanto da essere nominato capo di tutti i maghi di Babilonia. Cioè Daniele è in esilio con il suo popolo, dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme, è stato deportato e che cosa fa? Aiuta i sapienti di quella terra a capire la realtà, interpreta i sogni, come sanno fare gli ebrei (Giuseppe il padre di Gesù ce lo dimostra, Giuseppe figlio di Giacobbe, come Abramo, come Giacobbe..), interpreta i sogni, conosce l’astrologia e diventa capo dei maghi. Allora, come interpreta Man e come io credo, potrebbe essere un altro tipo di figura quella dei maghi che tornano dall’oriente e cioè sono gli ebrei della diaspora che tornano dal loro Messia. E qui facciamo un altro tipo di ragionamento. Ma allora questo servizio che fanno gli scribi è un servizio molto più interessante, perché non è soltanto un servizio rivolto ai pagani, ai lontani, cioè agli altri, agli stranieri. Perché dico questo? Perché nel vangelo di Matteo non c’è ancora un’apertura ai pagani, non è Marco, non è Luca. Il vangelo di Matteo è tutto chiuso nell’ebraismo e anzi Gesù dice: “Non rivolgetevi ai pagani” e quindi non si inserisce bene in questo quadro la figura di persone straniere che vengono ad adorare Gesù, vedo invece meglio l’idea, come si dice nel vangelo di Matteo che Gesù è venuto per le pecore perdute della casa di Israele, e quindi forse Matteo vuole dirci, con una parabola o forse con qualcosa di realmente accaduto, che vicino a lui sono venuti anche quelli che erano della sua stirpe, ma che avevano perduto la fede. Allora il servizio degli scribi è un servizio e cioè dei maestri di Gerusalemme diventa un ministero speciale che è un servizio verso quelli vicino che devono ritornare, che non sono i pagani, ma che sono quelli vicino a noi ai quali spesse volte non facciamo attenzione, che sono quelli che più di tutti dimentichiamo. Perché è facile dire andiamo ai pagani: (Matteo 28) andate e battezzate tutti i pagani, ma anche quelli che sono vicini, ma hanno perso il contatto con la fede e la parola di Dio. Cosa partano i maghi? Oro, incenso e mirra, ai quali abbiamo dato le interpretazioni che sappiamo, ma forse sono semplicemente i prodotti che portavano i mercanti, oppure altro non sono che gli elementi preziosi, di cui ci parla il Profeta Daniele, che erano stati portati via dal tempio durante la distruzione di Gerusalemme da parte di Nabuccodonosor. Abbiamo, concludendo, tanti atteggiamenti diversi in questa famiglia che si trova tra due poli: quello di avere un figlio come tutti gli altri bambini (attenti non seguiamo gli apocrifi dove ci sono scritti miracoli che Gesù fa da piccolo), è come l’Isacco in pericolo, ma che è un figlio speciale e che era speciale si capisce da tutte queste persone che gira intorno a Gesù: capisco che Maria non ci capiva più niente: cominciano ad arrivare i magi, i pastori, Simeone, Anna, capite che … ,ma meno male che sono venuti ad aiutare questa famiglia.

Che cosa possiamo fare? Tanti atteggiamenti diversi, quello negativo sicuramente di Erode, che è l’unico che non si muove e poi c’è un atteggiamento tutto speciale: quello di Maria che non capisce, ma che tiene queste cose nel cuore e che probabilmente, dobbiamo immaginare che capirà soltanto alla fine. Ma ha capito almeno che certamente questo Bambino è speciale, come lo aveva capito Giuseppe che ha la responsabilità del custode. Dunque Maria per noi è un grande esempio, perché ci dice che non capiamo tutto quello che succede, “non comprendevano”, ma che pure rimane aperta al mistero. Come dice Rossé molto bene, commentando questa frase di Luca 2,50, “perché mi cercavate?”: “dinanzi al mistero di Gesù e della sua missione Luca tiene a sottolineare l’incomprensione dei genitori.”

Permettetemi di dire questo, ma forse non è proprio vero che in fondo c’è un momento in cui i genitori non capiscono più i figli, e io dico meno male! Quale è questo momento? Quello in cui Gesù dice: “Perché mi cercavate? Ma non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”

E’ il momento della desatellizzazione, cioè è l’inizio del distacco: è il momento in cui i genitori capiscono che il servizio che hanno fatto era per questo, perché questo figlio scopra la propria vocazione. Continua Rossè, questa annotazione, cioè dei genitori che non capivano, nessuna rivelazione angelica potrà togliere la novità dell’amore di Dio all’uomo. Questo vuol dire che nonostante l’angelo abbia comunicato con Maria ( annunciazione) e con Giuseppe (4 volte) il mistero della novità di Dio resta. Questi genitori che volevano educare il figlio, volevano proteggerlo ed educarlo scoprono poi che è successo il contrario. Quando, nel vangelo i suoi vogliono venire a prenderlo perché Gesù faceva cose strane, il Figlio dirà: no, perché ha scoperto una missione più grande.

Dentro questi testi c’è la vostra esperienza genitoriale o di nonni e di servizio alla parola che condivideremo.



Spiritualità N°5 di Padre Giulio Michelini - Incontro del 6 febbraio 2010



Abramo compra il sepolcro per Sara.





Riprende il nostro cammino e concludiamo il ciclo dedicato ad Abramo e Sara trattando del testo che descrive la morte di Sara, la matriarca.

Leggeremo di nuovo questa parola facendo riferimento a un paio di midrashim della tradizione Giudaica, ma poi sopratutto all'interpretazione che ne dà il nuovo testamento. Vedremo che questo testo che pure sembra così arido, tecnico, si tratta dopo tutto della storia di un contratto di acquisto di un terreno, una specie di rogito a cui noi siamo abituati, è una materia giuridica molto complicata, questo testo però viene stranamente citato in due luoghi molto importanti del Nuovo Testamento, e diamo innanzi tutto lettura del capito 23° del capitolo della genesi nella nuova traduzione della Conferenza Episcopale Italiana:



Genesi 23, 1 – 20 1Gli anni della vita di Sara furono centoventisette: questi furono gli anni della vita di Sara. 2Sara morì a Kiriat-Arbà, cioè Ebron, nella terra di Canaan, e Abramo venne a fare il lamento per Sara e a piangerla.

3Poi Abramo si staccò dalla salma e parlò agli Ittiti: 4"Io sono forestiero e di passaggio in mezzo a voi. Datemi la proprietà di un sepolcro in mezzo a voi, perché io possa portarvia il morto e seppellirlo". 5Allora gli Ittiti risposero ad Abramo dicendogli: 6"Ascolta noi, piuttosto, signore. Tu sei un principe di Dio in mezzo a noi: seppellisci il tuo morto nel migliore dei nostri sepolcri. Nessuno di noi ti proibirà di seppellire il tuo morto nel suo sepolcro".

7Abramo si alzò, si prostrò davanti al popolo della regione, davanti agli Ittiti, 8e parlò loro: "Se è secondo il vostro desiderio che io porti via il mio morto e lo seppellisca, ascoltatemi e insistete per me presso Efron, figlio di Socar, 9perché mi dia la sua caverna di Macpela, che è all'estremità del suo campo. Me la ceda per il suo prezzo intero come proprietà sepolcrale in mezzo a voi". 10Ora Efron stava seduto in mezzo agli Ittiti. Efron l'Ittita rispose ad Abramo, mentre lo ascoltavano gli Ittiti, quanti erano convenuti alla porta della sua città, e disse: 11"Ascolta me, piuttosto, mio signore: ti cedo il campo con la caverna che vi si trova, in presenza dei figli del mio popolo te la cedo: seppellisci il tuo morto". 12Allora Abramo si prostrò a lui alla presenza del popolo della regione. 13Parlò a Efron, mentre lo ascoltava il popolo della regione, e disse: "Se solo mi volessi ascoltare: io ti do il prezzo del campo. Accettalo da me, così là seppellirò il mio morto". 14Efron rispose ad Abramo: 15"Ascolta me piuttosto, mio signore: un terreno del valore di quattrocento sicli d'argento che cosa è mai tra me e te? Seppellisci dunque il tuo morto".

16Abramo accettò le richieste di Efron e Abramo pesò a Efron il prezzo che questi aveva detto, mentre lo ascoltavano gli Ittiti, cioè quattrocento sicli d'argento, secondo la misura in corso sul mercato. 17Così il campo di Efron, che era a Macpela, di fronte a Mamre, il campo e la caverna che vi si trovava e tutti gli alberi che erano dentro il campo e intorno al suo limite 18passarono in proprietà ad Abramo, alla presenza degli Ittiti, di quanti erano convenuti alla porta della città. 19Poi Abramo seppellì Sara, sua moglie, nella caverna del campo di Macpela di fronte a Mamre, cioè Ebron, nella terra di Canaan. 20Il campo e la caverna che vi si trovava passarono dagli Ittiti ad Abramo in proprietà sepolcrale.



Abbiamo ascoltato questo brano che è percorso da un linguaggio molto tecnico e si potrebbe addirittura estrarre tutta questa parte che riguarda la contrattazione dell'acquisto del campo e si potrebbe partire dal versetto 4 e tagliare fino al versetto 19 e il brano funzionerebbe lo stesso nel suo significato, perchè in fondo si tratta di acquistare un luogo dove seppellire Sara. L'autore vuole comunicarci qualcosa di importante con questa insistenza su questa grotta, su questo campo, si tratta cioè di un racconto paradossale dove, la maggior parte delle parole, sono spese quasi inutilmente mentre noi saremmo interessati a sapere, come anche la tradizione Giudaica poi è interessata, a sapere perchè succede questo, come sta Abramo, perché muore Sara, cioè tutti quegli aspetti psicologici o del racconto che noi vorremmo invece fossero raccontati, ma che sono completamente omessi invece ci si concentra quasi esclusivamente su questo contratto. E' un acquisto che addirittura prevede un dialogo lunghissimo che si può suddividere in tre parti. Finalmente dopo questa lunga contrattazione viene comprata questa terra, ma in fondo è una terra che serve per seppellire un morto. Allora questo testo paradossalmente che dice di un acquisto, è molto interessante, si tratta di comperare della terra; comprare della terra è un segno di speranza, un segno di investimento ma qui abbiamo a che fare dell'acquisto della terra per un cimitero.



Sono due i temi che stanno alla base di questo capitolo, la terra e la morte.



Il servizio di Sara e di Abramo deve essere compreso necessariamente alla luce di questi due temi che rappresentano bene il nostro testo.

La tradizione rabbinica, con insistenza molto accentuata e ben sedimentata, dice che Sara morì dallo spavento per la notizia ricevuta a seguito della morte, o comunque della scampata morte, di Isacco. Tutti i midrashim e anzi, testi ancora più antichi, raccontano in diverse versioni e con diverse varianti della morte di Sara, sono magari diversi per i dettagli, ma dicono che Satana si avvicina a Sara quando lei non vede più Abramo e suo figlio Isacco perchè si trovano a Beer Sheeba (Bersabea): Gen 22, 19



19Abramo tornò dai suoi servi; insieme si misero in cammino verso Bersabea e Abramo abitò a Bersabea.



Dunque Sara non vede il marito e il figlio per lungo tempo fin quando viene raggiunta da Satana che informa Sara e gli dice: "hai sentito quello che è successo?", Sara risponde: "no", "tuo marito ha preso Isacco, l'ha ucciso, l'ha offerto come un sacrificio sull'altare, tuo figlio ha pianto, ma nulla si è potuto fare per lui" e, sentendo questo, Sara cominciò a piangere, pianse tre volte come il suono dello shofar quando si lamenta tre volte e poi accettò questo sacrificio del figlio. Ma, subito dopo, Satana vedendo che Sara non reagisce come avrebbe voluto, si avvicina di nuovo a lei e le dice: "volevo dirti la verità, non è vero che tuo marito ha offerto in sacrificio Isacco, Isacco vive!" e per questa ragione Sara muore, perché, dopo aver appreso della notizia che il figlio era morto e averla accolta, viene a sapere che il figlio invece è vivo e dunque Sara muore. Che cosa racconta questo midrash che a noi può sembrare fantasioso?

Intanto è molto interessante l'aspetto dell'affetto. Si dice di Sara che, aveva provato questo grande dolore ma anche questa grande gioia, ed è la gioia che causa la sua morte. Una morte dovuta alla gioia, ma in fondo questa donna è la madre insieme a Eva, è la matriarca di Israele e di tutti i popoli, come dice Paolo nella lettera ai Romani, ma è una donna molto vicina a noi perchè è capace di soffrire fino al punto di morire per il proprio figlio. Questo midrash però nasconde un problema nel testo, un problema di Genesi 22 che non è difficile trovare a una attenta lettura. Noi non prendiamo in considerazione la storia del sacrificio di Isacco (nella tradizione Giudaica chiamato "legaura di Isacco"), per esempio il fatto che al versetto 19 si dice che Abramo tornò dai suoi servi e insieme si misero in cammino verso Bersabea, ma non si dice dove sia Isacco, dove è andato Isacco? Come vedremo nella lettera agli Ebrea, la tradizione rabbinica, che la lettera agli Ebrei bene conosce, dice che Isacco è morto. Quindi quello che satana dice a Sara in un primo momento corrisponde alla verità: "tuo figlio è stato ucciso!". Però subito dopo Isacco ritorna in vita perché il cap 24 racconta della ricerca di una moglie per Isacco e quindi vuol dire che Isacco non è morto, dunque è vivo, ecco perché satana ritorna da Sara e le dice: "Guarda, tuo figlio è vivo!". La domanda che percorre il testo della legatura di Isacco è: che cosa è successo effettivamente nel rapporto tra Isacco e il padre e la madre? Non è difficile rispondere che effettivamente Abramo ha sacrificato suo figlio, cioè lo ha sacrificato davvero, è un'offerta vera e propria che è giunta fino alla morte del figlio, quantomeno in senso simbolico. Secondo alcuni midrashim è davvero morto e, come vedremo nella lettera agli Ebrei, proprio perchè Abramo credeva nella resurrezione e lo riebbe infatti, come dice la lettera, come una parabola. Ecco la morte di Sara in fondo è la morte conseguente a quello che Dio ha chiesto al marito, Abramo è chiamato ad offrire il figlio della promessa e solo quando Sara viene a sapere di quest'offerta (prima non conosce, non sa i retroscena, non ha idea di quello che è accaduto realmente) ella muore. Naturalmente il nostro testo biblico non dice questo però è vero che sottolinea in modo molto originale la morte di Sara e le dà una grande importanza, basti sapere che è la prima volta nella bibbia che si dicono gli anni della vita di una donna, mentre per i patriarchi siamo abituati a conoscere l'età e gli anni che hanno vissuto, soltanto in questo testo, in 23, 1 si dice che gli anni della vita di Sara erano cento anni, venti anni e sette anni. (vi sto traducendo dall'ebraico), e qui ci sono pagine e pagine di commenti perché è l'unica volta che compare questa strana formula. Immaginatevi i rabbini che cosa hanno potuto interpretare (non si dice centoventisette anni, ma cento anni e venti anni e sette anni). Questo testo attira l'attenzione di qualsiasi lettore della Bibbia perchè sentiamo la ripetizione inutile per dire che cosa? Qui le interpretazioni si sprecano, potremmo giocare tanto sui numeri, come fa l'esegesi Giudaica, possiamo però ricordare soltanto quello che dice un midrash, cioè che: venti anni rappresentavano la bellezza di Sara, sette anni la sua innocenza e cento anni la sua longevità. Dove muore Sara? Muore in una terra che non è la terra ancora data da Dio ad Abramo, si tratta cioè di una terra che Abramo non possiede; Abramo viene a fare il lamento per Sara e a piangerla e deve provvedere alla sua sepoltura. Ricordo che nel mondo antico è importante la sepoltura dei defunti. Si credeva infatti che, se non fosse stata data sepoltura degna ad una persona, il suo spirito avrebbe vagato e per questo è così importante nel mondo biblico e anche nel mondo islamico che il corpo ritorni alla terra, perché deve e possa riposare in questo luogo. In questo luogo che è lo Sheol in fondo e perché, dice Ravasi: "la privazione della sepoltura è la peggiore disgrazia in quanto costringe il morto ad errare senza pace e ed essere disperso e rifiutato".

Questo lo capiamo perché in fondo errare senza una sepoltura vuol dire essere dimenticati. Se si può pensare ai fantasmi che vagano senza pace (la credenza dei fantasmi era diffusa anche nel mondo biblico, basti pensare a Gesù che viene scambiato per un fantasma anche se era ancora vivo), ma l'idea è che, se non vieni sepolto in un luogo sul quale fare memoria, la tua memoria scompare e il ricordo non c'è più. Dunque bisogna essere sepolti in un luogo, conservare la memoria perché questa venga tramandata di generazione in generazione.

Abramo deve acquistare una terra perché non possiede ancora la terra e questo è il primo dramma che si intravede in questo racconto. Abramo era uscito, al capitolo 12, è inviato da Dio perché potesse uscire dalla propria terra, dal proprio casato, dalla propria famiglia verso una terra che Lui gli avrebbe dato; Dio al capitolo 15° ha ripetuto ancora questa promessa e poi ancora alla fine del capitolo 22° si dice, dopo l'offerta del figlio Isacco, che "la tua discendenza si impadronirà delle città e dai tuoi nemici", intendendo quelle città che si trovano nella terra che gli aveva promesso. Eppure Abramo arriva alla morte della moglie e non ha ancora nulla; ecco perché i racconti rabbinici dicono che improvvisamente, alla morte di Sara, Abramo invecchiò. E' molto bello questo dettaglio, molto umano, Abramo, fino a qualche tempo prima, veniva scambiato per il figlio Isacco. Erano talmente simili il padre e il figlio! Abramo aveva conservato così a lungo questa giovinezza al punto tale che non si riusciva a distinguerli, dicono i midrashim. Ma alla morte di Sara Abramo improvvisamente cominciò ad avere le rughe, a invecchiare e ad avere i capelli bianchi e forse anche perché vede non realizzarsi, nonostante la nascita del figlio, la promessa della terra, dovendo acquistare una terra che invece avrebbe dovuto ottenere da Dio, ed è qui uno dei punti centrali di questo racconto. L'acquisto di una terra per il cimitero riguarda, dopo tutto, il tema della promessa fatta ripetutamente ad Abramo, ma Abramo è ancora in Canaan ed è ancora straniero e forestiero da non avere neppure un piccolo spazio dove seppellire la moglie. Possiamo immaginare che ci sono ragioni sufficienti per vederlo invecchiare, ma Abramo non si perde d'animo e va a cercare questa terra, chissà perché Ebron? Le tradizioni rabbiniche, molto velocemente ve le accenno, dicono che: Abramo andò ad Ebron perché era il luogo dove erano stati sepolti Adamo ed Eva; nella grotta di Macpela si custodiva la memoria di Adamo ed Eva. Io sono stato quest'estate ad Ebron, è difficile andarci, bisogna trovare tante condizioni. Sapete che Ebron è una città che non trova pace purtroppo, si possono visitare, in una bella moschea molto antica, i resti della cornice e del palazzo del grande mausoleo di Erode il Grande che custodisce le tombe di Sara, Abramo, Isacco, Giacobbe, Lia, Rebecca. Si tratta di un luogo che ancora oggi però segnala queste contraddizioni. Ebron è una città dove bisogna stare attenti, dove potrebbero arrivarti addosso sassi da un momento all'altro, dove ci sono le reti sopra le strade perché purtroppo i Palestinesi e gli Ebrei che vivono lì non vogliono cedere la memoria di questo luogo. Evidentemente perché la questione è che l'acquisto di questo cimitero è il germe della realizzazione della promessa di Dio ad Abramo, cioè è come la dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d'America che viene custodita come il momento della nascita di questo paese, momento in cui ci si ribella all'Inghilterra e da lì tutto nasce. Dunque questa dichiarazione d'indipendenza è la pietra fondativa di una nazione, così come Ebron è il luogo dove nasce il senso del possesso della terra e proprio ad Ebron c'è un interesse fortemente politico e religioso insieme. Ma non sfugga a nessuno la contraddizione, si tratta in fondo di una terra che fonda lo stato di Israele e quello che sarà il nascente stato di Israele: ricordate il Regno di Davide parte da Ebron, Davide ha abitato a Ebron e ha vissuto a Ebron, qui ha iniziato a governare il suo popolo per poi spostarsi a Gebus, a Gerusalemme, ma non sfugga a nessuno che questo luogo, da cui parte tutto, è in fondo un cimitero. Ecco perché la lettera agli Ebrei commenta questo elemento e possiamo andare subito all'11° capitolo della lettera agli Ebrei che parla di Sara, di Abramo e al versetto 11. Si dice che:



Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell'età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare.



Sentiamo qui le parole del Genesi. Il versetto seguente deve davvero farci riflettere:

Abramo e Sara muoiono nella fede senza aver ottenuto i beni promessi:



Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi,



vorrei che fosse chiara questa spiegazione lucida e spietata che viene data dall'Autore della lettera agli Ebrei: noi ci aspetteremmo che, dopo la lunga saga di Abramo che esce, a cui viene rinnovata la promessa, che lotta, che si dispera e che compie un'alleanza, che è il primo dei credenti, che crede, che ha un figlio nonostante fosse già segnato dalla morte. ci aspetteremmo che la lettera agli Ebrei scrivesse: e finalmente ottennero i beni promessi e invece il testo dice che:

ma li videro e li salutarono solo da lontano.



Questo ci ricorda tanto la figura di Mosè che saluta la terra da lontano, dal monte Nebo, la vede, sa che Dio è fedele, la vede come dice Ebrei 11, 13 ma li salutarono solo da lontano, come Mosè che è sepolto fuori della terra,



dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra.



Mi sembra che questo dia una chiarissima indicazione su quale tipo di servizio hanno fatto Abramo e Sara, per usare il linguaggio al quale siamo abituati, quale diaconia abbiano potuto svolgere. Abbiamo sentito dall'inizio, dai primi incontri quanto sia stato importante il loro lavoro presso i pagani, perchè li convertivano, lo dice un midrash basato sulla parola di Dio, loro riuscivano a comunicare la fede nell'unico Dio, Sara con le donne e Abramo con gli uomini. Sappiamo quanto esempio abbiano dato. Sara ha vissuto tantissime vicissitudini, ha resistito a tanti che volevano possederla (ricordate la storia con il Faraone), il servizio che loro hanno svolto è un servizio prezioso, ma che si conclude con il loro vedere salutare solo da lontano i beni che erano stati loro promessi. Si tratta certamente di un affidarsi a Dio ed un affidare anche a lui i risultati possibili e ottenuti. Agli occhi umani il bilancio che si dovrebbe compiere della vita di Sara e di Abramo, sulla base dei bilanci della vita che facciamo noi, è un bilancio fallimentare secondo quanto scrive la lettera agli Ebrei perché erano stranieri e pellegrini sulla Terra della Promessa. Diremo ora questo secondo concetto: agli occhi umani non hanno guadagnato nulla, ma agli occhi di Dio e per la fede evidentemente hanno reso un servizio che è molto più grande, per fede, cioè hanno avuto fede e per questo sono, insieme ad Abele ed Enoch, a Noè a Isacco, Giacobbe, Mosè e a tutti gli altri Patriarchi e agli altri uomini e donne del primo testamento, sono degni di stare in questo capitolo della lettera agli Ebrei che dice che è la fede (la definizione della fede secondo la Lettera agli Ebrei):



Eb 11, 1 - La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. Per questa fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio.



Mi sembra che ci sono sufficienti motivazioni per dire quali sono gli obiettivi da raggiungere nella nostra diaconia vissuta come coppia anche nella elaborazione del lutto, cioè di questo elemento di cui non si può non tenere conto, è un servizio che tende a impostare la propria vita per il raggiungimento non di obiettivi, diremmo noi pastorali semplicemente, ma che hanno a che fare con i beni "diversi", quali? E siamo al versetto 14:



Ebrei 11,14Chi parla così, mostra di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città.



Lascio a voi l'interpretazione di questo testo sulla base di quello che abbiamo detto, il Dio di Abramo e di Sara non si deve vergognare di essere chiamato loro Dio, anche se non ha dato loro la terra che essi aspettavano. Infatti, parafrasando, la terra che viene loro donata è un'altra terra migliore, cioè quella celeste e qui arriviamo al secondo punto.

Il secondo punto della nostra meditazione parte dalla frase famosa e importante, che è citata in almeno altri due luoghi nel nuovo testamento, dove Abramo si descrive nel momento in cui inizia la contrattazione con gli Ittiti (non sono evidentemente il popolo degli Ittiti che conosciamo originari dell'Anatolia e della Turchia, ma sono chiamati così una popolazione simile ai Cananei) e questi ricevono la richiesta di acquisto del terreno da parte di Abramo e Abramo si autopresenta a loro dicendo: Datemi la proprietà di un sepolcro perché io sono forestiero e di passaggio.

Nella precedente traduzione si diceva pellegrino e forestiero; questa è una definizione molto importante che diventa il paradigma con il quale, per esempio, si descrive Gesù nel dialogo con i discepoli di Emmaus, nel modo in cui, al capito 24° di Luca, si presenta loro come un viandante e i discepoli di Emmaus al versetto 18 gli chiedono: “ma solo tu sei così forestiero a Gerusalemme?”

E’ un immagine quella di Abramo che si definisce “pellegrino e forestiero”, è un’immagine fortissima che dice addirittura qualcosa di Gesù, ma dice molto dei cristiani. Ed arriviamo dunque ad una conclusione della nostra meditazione, a partire dall’esordio dell’indirizzo della prima lettera di Pietro.

Come vi avevo detto il racconto dell’acquisto della grotta di Macpela e della morte di Sara è molto importante per il N.T. e per il giudaismo attuale perché in Ebron c’è l’inizio del possesso della terra, ma anche perché questa autodefinizione di Abramo viene ripresa da Pietro che scrive ai fedeli che vivono, leggo come traduce la nuova CEI, come “straniere dispersi” e poi l’elenco delle terre dell’ Anatolia, cioè dell’attuale Turchia: il Ponto, la Galazia, la Cappadocia, ricordate la lettera ai Galati di Paolo, nell’Asia la Bitinia..

Dalla prima lettera di Pietro:

Pietro, apostolo di Gesù Cristo, ai fedeli che vivono come stranieri dispersi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadòcia, nell`Asia e nella Bitinia, scelti 2secondo il piano stabilito da Dio Padre, mediante lo Spirito che santifica, per obbedire a Gesù Cristo e per essere aspersi del suo sangue:a voi grazia e pace a voi in abbondanza.

Altrove più avanti al capitolo 2, vesetto11:

Carissimi, io vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai desideri della carne che fanno guerra all`anima. 12La vostra condotta tra i pagani sia irreprensibile, perché mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio.

E così via, anche nella parenesi, così come nell’indirizzo, viene utilizzato da Pietro questo linguaggio con il quale Abramo si autodefinisce. Perché Abramo si autodefinisce così? Perché Abramo deve comprare una terra che non è sua e la compra proprio perché non ha alcun possesso di quella terra, ma anche perché evidentemente c’è qualcosa che descrive nel profondo l’esperienza vissuta da Abramo, che poi è quella di Gesù, che è anche quella vissuta dai discepoli di Gesù che vengono chiamati così nella prima lettera di Pietro: l’esperienza della provvisorietà. L’essere cristiani comporta, per la prima lettera di Pietro, essere stati scelti, ma dispersi, essere stranieri in queste terre. Dunque c’è l’elemento dell’elezione, ma c’è anche l’elemento di essere nella dispora.

Cosa significa nel linguaggio biblico “parepidemois” e “paroicos”? Quando Abramo si descrive come “straniero” e poi come “provvisorio” dice di un soggiorno temporaneo come lo stare di quelli che vivono in un luogo per lavorare, un po’ come gli extracomunitari oggi, oppure come gli ospiti di una nazione che vivono in un paese per lavorare con un permesso di soggiorno, ma temporaneo. Quando Pietro scrive ai fedeli scelti da Dio e che sono dispersi pensa a loro non perché poi ritorneranno a Gerusalemme, oppure sono destinati ad un’altra patria che sceglieranno in questa terra come loro patria, ma li pensa proprio nei termini di Abramo che è un nomade che ha percorso un lungo itinerario di vita e di fede, ma che non ha trovato pace fino all’ultimo, se non acquistando un campo, un cimitero per la propria moglie. E’ molto interessante perché questa espressione ci dice di una provvisorietà che da una parte ci spaventa, ma che dall’altra ci aiuta a renderci conto che gli anni che viviamo sono 80 per i più robusti, come dice il salmo 90. Ci dice anche che noi, come Abramo, possiamo sì comprare una terra, sperare nella promessa, ma non dobbiamo pensare di possederla completamente in questa vita. Ecco perché la lettera agli Ebrei dice che loro ragionavano in questo modo e che chi pensava così aspiravano ad una patria migliore e definitiva. Anche il salmista nel salmo 39, versetto 13, riprende questa definizione di Abramo che Pietro riprende ed estende a tutti i cristaini:

Ascolta la mia preghiera, Signore, porgi l`orecchio al mio grido,

non essere sordo alle mie lacrime,poiché io sono un forestiero,uno straniero come tutti i miei padri.

“Par-oichia”, che cosa significa questa parola essere stranieri? Significa “parrocchia”. Volevamo arrivare qui. Quando Abramo, secondo la traduzione della “Settanta”, dice di essere forestiero dice: “ego emi par oicos” (43.58) . Questa parola nasconde la parola “casa”, cioè “oichia” “oicos” c’è un femminile e un maschile; il termine significa “avere casa”, ma “accanto”. E’ per questo che questa parola ha fatto un salto poi molto importante; cioè l’origine di “parrocchia” per noi è chiarissimo, deriva da questa parola, ma con una specie di contraddizione. Cioè se all’inizio questa parola significava “non sentirsi a casa in fondo da nessuna parte, essere pellegrino, essere forestiero”, questa parola alla fine definisce però “il vivere in un luogo da credente”. Vi cito un termine dal martirio di San Policarpo, dove il testo si apre in questo modo: “Alla Chiesa di Dio che dimora in Smirne e a tutte le comunità della Santa Chiesa Cattolica in ogni luogo, e qui non si cita “ecclesia”, ma “paroichia”, quindi, traducendo a orecchio, diremmo “e a tutte le parrocchie”, ma capiamo ciò che c’è dietro: a tutte le comunità della Santa Chiesa Cattolica in ogni luogo, cioè a tutte coloro che sono, come nella prima lettera di Pietro, dispersi nella terra della Turchia di oggi, ma che vivono questa dimensione in Comunità. Insomma il vivere da “stranieri” come Abramo, come Gesù, come i credenti a cui si rivolge Pietro diventa un marchio talmente forte dell’identità cristiana che andrà progressivamente a significare la loro aggregazione e il luogo in cui vivranno: la diocesi o la parrocchia. E credo che sia successo oggi questo: che il cristiano che in fondo non può sentirsi a casa da nessuna parte, come dice la lettera agli Ebrei: “cercavano una residenza migliore”, cioè quella del cielo, in fondo però “si sentono a casa loro in ogni ambiente nel territorio dove si raduna la Comunità”.

Attenti non è come la lettera a Diogneto. La lettera a Diogneto dice: “la nostra vita si svolge qui, ma la nostra residenza è nel cielo”, ma il martirio di Policarpo è ancora più esplicito utilizzando questa parola “paroichia”e stravolgendola, mentre all’inizio diceva “la provvisorietà” e utilizzandola invece per indicare coloro che vivono in quel luogo come credenti e cioè insediati ormai come comunità di credenti, ci dice che in fondo i cristiani, sulla base di quello che vive Abramo, non sono a casa da nessuna parte, perché comunque rimangono stranieri da qualsiasi parte, però si sentono “parrocchiani”. “Sei a casa tua come straniero””essere straniero nella tua casa”.

Ecco perché il servizio che viene chiesto a noi credenti che viviamo l’esperienza della speciale consacrazione è quello di accogliere anche, per quanto attiene alla nostra specifica vocazione, di essere “parrocchiani” in senso completo, cioè non soltanto come lo intendiamo noi, cioè quello di avere cura di una parrocchia, ma di avere cura del fatto che questa parrocchia indica l’essere forestieri stranieri, stranieri e vivere una provvisorietà legata al luogo. L’idea è alla fine è che l’obiettivo che ci possiamo prefiggere non è quello di comprare il cimitero per la propria moglie, ovviamente stiamo parlando di un simbolo, ma stiamo dicendo che l’obiettivo che aveva Abramo, l’obiettivo della sua vita si realizza in questo modo. Quando Abramo ottiene questa terra, la terra della Promessa? Quando la compera. Ma allora che terra della promessa è? Qui davvero dobbiamo ragionare in termini di fede: ma la compra e siccome la compra, ci dice la lettera agli Ebrei, non può essere più la terra della promessa e una volta che l’ha comprata la Terra della Promessa diventa quella che la lettera agli Ebrei chiama la “Patria del cielo”. Perché la terra che Abramo ha conquistato per dare onorevole sepoltura alla moglie che ha tanto amato diventa la terra del possesso e allora cessa di essere quella della promessa, mentre quella della promessa diventa quella del cielo.

Chi avrebbe mai detto che Abramo e Sara avrebbero visto compiuta in questo modo la promessa di Dio: nella lettera ai Romani è detto al capitolo 4 che Abramo per questo è nostro Padre nella Fede. Vi cito il versetto dal v.19 al 25 .“ Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo - aveva circa cento anni - e morto il seno di Sara. 20Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, 21pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. 22Ecco perché gli fu accreditato come giustizia.

23E non soltanto per lui è stato scritto che gli fu accreditato come giustizia, 24ma anche per noi, ai quali sarà egualmente accreditato: a noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, 25il quale è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione.



Spiritualità lezione N° 6 - 6 marzo 2010



Preparazione alla Pasqua - La madre dei figli di Zebedeo



Oggi prenderemo in esame un unico testo del Nuovo Testamento perché, in tempo di quaresima, valorizziamo l’aspetto certamente penitenziale di questo tempo che è già presente nella tradizione di Israele. Penso al tempo che va dal capodanno ebraico al giorno dell’espiazione, da cui noi abbiamo mutuato questo periodo, interpretandolo attraverso i 40 giorni di Gesù nel deserto, attraverso la prova a Gerusalemme e poi sul monte alto. Ma in questo tempo di Quaresima volevo parlare del servizio di Gesù, dei discepoli e quindi ho fatto un esercizio molto semplice: ho cercato il verbo diaconeo che significa servire per arrivare ad un testo che è quello che leggiamo e che parla del servizio specifico di Gesù, ma per confrontarlo poi con il servizio degli altri. Il testo che leggiamo è Matteo 20, 20-28, vi chiedo di tenere un segno a questo testo e lo confronteremo con il testo parallelo di Marco 10, 35-45. Luca segue Marco e quindi lo potete leggere da voi. Faremo ciò per cogliere la teologia specifica di questo Vangelo di Matteo. Come si fa a cogliere la pennellata di ciascun Vangelo? Quando si tratta dei vangeli sinottici noi li confrontiamo fra di loro e possiamo cogliere l'aspetto specifico, la mano di ciascun evangelista. Per cogliere dunque la caratteristica del vangelo di Matteo dobbiamo leggere il passo parallelo: Marco al capitolo 10 dai versetti 35 a 45.

Il testo di Matteo, che vogliamo analizzare e che leggeremo nella nuova versione CEI, è il testo in cui compare più spesso la parola “diaconeo”, cioè “servire”.



Matteo 20, 20-28



20Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedèo con i suoi figli, e si prostrò per chiedergli qualcosa. 21Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Dì che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». 22Rispose Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?». Gli dicono: «Lo possiamo». 23Ed egli disse loro: «Il mio calice lo berrete; però sedere alla mia destra e alla mia sinistra non sta a me concederlo, è per coloro per i quali il Padre mio lo ha preparato ».



I capi devono servire



24Gli altri dieci,avendo sentito, si sdegnarono con i due fratelli. 25Ma Gesù li chiamò a sé e disse: «voi sapete che i capi delle nazioni dominano su di esse e le opprimono. 26Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e 27chi vuole essere il primo tra voi sarà vostro schiavo. 28Come il Figlio dell`uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».





Ecco, vi propongo alcune piccole correzioni: la prima al versetto 25, Gesù sta parlando dei pagani, (sto traducendo dal greco) “voi sapete che i governanti dei gentili”, in termini tecnici queste nazioni sono sempre le nazioni pagane opposte al popolo di Israele, dunque qui si sta parlando dell'atteggiamento dei pagani. I pagani governano in questo modo, dominano in questo modo, questo è quello che fanno i pagani; la parola “esnon” (nel vangelo di Matteo, ma quasi per tutti i vangeli) si può quasi sempre tradurre con i pagani, in Matteo al cap. 10 Gesù dice ai suoi di non andare nella via dei pagani, non delle nazioni o dei popoli, ma dei pagani. Poi dobbiamo specificare che qui c'è un temine servire (diaconeo e diaconos) per tre volte, al versetto 26: chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro (il greco dice) "diaconos" (sia il diacono di voi, vostro), quindi potete ben cancellare questa parola servitore, perchè noi sappiamo che in greco é diaconos e noi sappiamo bene quello che vuol dire. E poi il verbo servire che ricorre nel versetto 28, perchè Gesù parla del proprio servizio e di non essere venuto per essere servito, il verbo qui guarda caso è diaconeo. Allora è chiaro che questo testo è di grande interesse per noi; infatti la domanda che io mi sono fatto è perchè qui ci sia una tale intensità nell'uso della parola servizio e di vocabolario legato al termine del servizio provocato dalla domanda della madre dei figli di Zebedeo. In realtà questa che abbiamo sentito è la lettura di Matteo di questo episodio, perchè l'episodio nel racconto originario di Marco è molto diverso.

Insieme ad altri studiosi, io ritengo valida l'ipotesi delle due fonti e dunque spiego subito che, a mio avviso, essendo il vangelo di Marco più antico e prendendo Matteo da Marco, dobbiamo immaginare che qui ci sia un'opera che Matteo compie di elaborazione di questo testo. Questo per delle ragioni che dobbiamo trovare qualche decina di anni dopo che il testo è stato originato, che il racconto è stato composto. La lettura dunque di Matteo è una lettura diremmo funzionale a una teologia che dobbiamo scoprire, vi darò per questo diverse soluzioni. L'originale di Marco invece è molto più semplice (e lo vediamo subito), almeno nel suo inizio, perchè poi il detto centrale sul servizio invece è quello che abbiamo già sentito, ma la differenza sostanziale è a partire dal versetto 35:





Marco 10, 35-45



La domanda dei figli di Zebedeo



35E gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». 36Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: 37«Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». 38Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». 39E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. 40Ma sedere alla mia destra e alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».



I capi devono servire



41Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. 42Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono.43Tra voi però non è così; ma chi vuol diventare grande tra voi sarà vostro servitore, 44e chi vuol essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti.45Anche il Figlio dell`uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».



Avrete notato che al versetto 35 non c'è la mamma dei due fratelli, allora adesso dobbiamo esplorare questo tipo di questione. Devo dirvi che ho dovuto faticare perchè questo tipo di confronto tra Matteo e Marco in genere viene molto diminuito, in particolare uno dei commenti a Matteo dice: "non è tanto importante sapere chi ha fatto questa domanda". Vi darò una giustificazione che forse regge, ma la motivazione me l'ha data uno studio pubblicato da un esegeta americano che io credo metta insieme i pezzi di questa meditazione quaresimale che riguarda il servizio di Gesù e il servizio delle donne e degli uomini. In questo modo proprio: il servizio di Gesù, il servizio delle donne e il servizio degli uomini. Perchè qui abbiamo a che fare, nella versione Matteana, con un'aggiunta, con una trasformazione del testo che fa l'Evangelista che vuole decisamente mettere questa donna all'interno di questa storia. Intanto ricordiamo il contesto. Il contesto è molto semplice perchè è quello intorno al quale stiamo un po' lavorando in questo tempo di quaresima, è il contesto del terzo annuncio della passione di Gesù, è l'ultimo annuncio, è quello più specifico e più chiaro di tutti, in particolare, ancora una volta al versetto 19 e per la prima volta in questo contesto, appare la parola pagani; Gesù dice che sarà consegnato ai pagani, è quello più circostanziato, è la terza volta che Gesù annuncia che andrà a Gerusalemme. Ricordate proprio domenica scorsa abbiamo ascoltato il brano che precede il secondo annuncio, cioè il racconto della trasfigurazione. Noi sappiamo che i vangeli ci danno uno schema molto essenziale che è facile da capire, ma è difficile da vivere. Lo schema è che Gesù annuncia il suo viaggio a Gerusalemme, la sua passione morte e risurrezione e, tutte e tre le volte che lo fa, succede qualcosa. In particolare succedono delle reazioni scomposte da parte dei discepoli: la prima volta ricordate che satana entra in Pietro e dice: "No! non ti accadrà questo!" è Gesù dunque dice a Simone: "vieni dietro di me e seguimi!"; la seconda volta, non curanti di quello che Gesù aveva appena detto, anzi, forse proprio per questo, i discepoli si domandano chi sia il più grande. L'ultima volta, e siamo al cap 18°, subito dopo il secondo annuncio della passione, i discepoli forse avevano elaborato, come in questo terzo annuncio, un elemento che avevano colto, ma non avevano colto l'interezza del messaggio. La terza volta, come sentite c'e la madre di Giacomo e Giovanni in Matteo, in Marco invece sono i discepoli direttamente. Perchè questa reazione? E' evidente che i Vangeli ci stanno dicendo che, quando Gesù parlava, i discepoli non veniva capito, Gesù non era capito, era compreso male, in particolare i discepoli e, in questo caso la mamma dei figli di Zebedeo, coglievano soltanto uno degli aspetti del seguire Gesù. Che cosa ci lascia pensare questa cosa? Ci lascia pensare che è difficile cogliere nell'insieme la Parola di Gesù riguardo a sé e alla croce, mentre si fa presto a cogliere l'aspetto della glorificazione, l'aspetto del potere. Gesù dice: "noi saliamo a Gerusalemme" e questo capiscono i discepoli e la mamma di Giacomo e Giovanni, capiscono o cioè che Gesù andrà a formare un nuovo governo, che salirà al colle, che presenterà i ministri. Andare a Gerusalemme per i discepoli e la madre dei figli di Zebedeo significa, per questo cammino che abbiamo seguito e che ci ha portato fino a questo punto, significa finalmente far venire allo scoperto il Messia. Gioverà ricordare a tutti voi che, la prima volta che Gesù annuncia la sua passione, la prima volta, avviene subito dopo la confessione di Pietro. Pietro cioè dice, a fronte del senso comune degli altri che non arrivano a riconoscere la vera identità di Gesù, dice: "Tu sei il Messia!", cioè quello che Dio ha mandato. E sembra aver capito, ma quando Gesù dice che tipo di Messia sarà, cioè un Messia figlio dell'uomo, cioè uomo che è soggetto alla fragilità e che andrà a Gerusalemme per soffrire e morire, ecco che Pietro non capisce più, come non capiscono più gli altri discepoli, come non capisce più la mamma di questi giovani. Questo perchè non è facile cogliere che il Messia, anzi dirò di più e cioè che è impossibile, se non si è istruiti da Gesù, se non si accetta che questo servizio e questa logica del servizio, è impossibile cogliere che questo essere Messia implicherà essere un Messia, Figlio dell'uomo.

Ricordate che questi due termini non si possono disgiungere, nel processo Ebraico, nel sinedrio, la domanda che viene fatta dal sommo sacerdote è religiosa: cioè viene chiesto a Gesù: "Sei dunque tu il Cristo?". Pilato gli domanda molto più politicamente, perchè questa è la questione: "Sei tu un Re?" e Gesù viene infatti condannato per lesa maestà perchè il titolo "Crucis" è “re dei Giudei”. Ma la domanda che fa Pilato è poco interessante; è invece molto più importante per noi quella che fa il sommo sacerdote, che domanda: "Tu sei il Cristo?" Gesù non risponde sì, semplicemente, perchè non basta questo, dice: "Lo sono e vedrete il figlio dell'uomo..", cioè c'è una dimensione che lui tocca sempre, dice il Cristo ma….. .

“Il Figlio dell'uomo”, lo sapete tutti, ma lo ricordo così lo rinfreschiamo perché è importante, è da una parte quella figura misteriosa e gloriosa di Daniele al capitolo 7°, ma dall'altra parte dice la nostra realtà umana, segnata dalla debolezza, dalla fragilità, l'essere umano; dunque Gesù è un Messia sofferente, qualcosa che, come dirò alla fine non solo è difficile da capire, ma era impossibile comprendere. Allora ecco perché o almeno intuisco perché, leggendo questo brano, i discepoli non hanno ben compreso e per questa ragione la mamma dei figli di Zebedeo si rivolge a lui perchè spera in un posto sicuro per i propri figli, quando sarà il tuo regno, cioè quando tu andrai a Gerusalemme e inaugurerai il regno che Gesù aveva promesso di inaugurare. Ricordate, qui siamo al cap 20° di Matteo, al cap 19°, subito dopo la questione sul celibato e il divorzio, Gesù sente una domanda da Pietro: "Ma noi che abbiamo lasciato tutto che cosa ne avremo?.. " e Gesù risponde: "Voi che avete lasciato tutto e mi avete seguito siederete sui dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele..". Ecco Gesù immaginava davvero di poter costituire l'Israele disperso e di delegare a questi dodici il giudizio sulle tribù che rappresentavano l'Israele di Dio riunificato, ma questa riunificazione avviene, lo sappiamo bene, attraverso la sua sofferenza e la sua morte. Invece quello che intendono Pietro e gli altri, come ha inteso questa donna, di cui non sappiamo il nome (ve lo faccio notare questa donna è riconosciuta solo attraverso il nome del marito) quello che questa donna deve aver capito è che il regno era imminente, Gesù lo avrebbe costituito di lì a poco e dunque bisognava chiedere. Chiedere che cosa? Forse di ritoccare quello che Gesù aveva ormai deciso di fare: Gesù aveva deciso (questo è nel Vangelo di Matteo e solo nel vangelo di Matteo capitolo 16) che a capo della sua chiesa fosse Simone, e Matteo all’affermazione del discepolo "Tu sei il Cristo.." allora Gesù dice "Beato te…… e dunque su di te edificherò la mia Chiesa". Qui abbiamo questa donna che certamente, potendo fare quello che può fare, cioè con l'influenza attraverso i propri figli, sui propri figli, domanda evidentemente di poter chiedere a Gesù non che Simone stia alla destra, ma che uno dei sui figli sia alla destra di Gesù nel suo governo, e l'altro alla sinistra di Gesù. Ecco qui è chiaro che esploriamo un elemento importante per noi e cioè il fatto che questa donna in qualche modo tenti di rovesciare le carte in tavola e non è un elemento da sottovalutare perchè dobbiamo ricordarci che Marco non ha questo particolare, Marco non ci dice di questo atteggiamento in una donna, sono i discepoli che autonomamente prendono questa decisione.

Allora perchè questa donna compie questa operazione, evidentemente perchè fa quello che può, lei si prostra, avete visto il suo modo di agire, lei si avvicina, gli presenta i figli e con insistenza chiede per loro questo segno di potere. Gesù non la manda via, ma cambia registro e dice: "potete bere il calice che io sto per bere?" e si rivolge a tutti e tre, faccio notare questo: qui il dialogo si svolge tra Gesù, la mamma e i due figli, a tutti e tre e la domanda è "Chi ha bevuto questo calice?", che cosa significa bere il calice e chi in fondo beve il calice in Matteo? Daremo la soluzione solo alla fine.

Ma la domanda che ci poniamo è proprio questa: perchè Matteo ha aggiunto la figura femminile della madre dei figli di Zebedeo? Che tra l'altro crea una complicazione.

-Allora alcuni autori dicono semplicemente che si tratta di un mistero, per esempio Luze dice non potremo mai saperlo fino in fondo e forse Luze dice che Matteo è così rispettoso di Giacomo e Giovanni che vuole risparmiare loro una brutta figura, cioè vuole mostrare per loro un maggiore rispetto, dunque se in Marco sono loro due che chiedono invece Matteo avrebbe voluto risparmiare loro questa figuraccia e dunque ci mette di mezzo la mamma.

- Un altro commentatore, Nolland, spiega che la donna, che nelle società patriarcali non aveva potere, lo esercitava soltanto attraverso l'influenza sui figli e dunque in questo modo questa donna mostra di avere il desiderio di potere, questa è una scena molto realistica, è probabile che sia avvenuto così.

- Invece un altro studioso, Saltarini, uno studioso americano arriva con una sua soluzione, a mio avviso molto interessante: Saltarini prende in esame tutte le volte in cui le donne vengono raffigurate nella comunità primitiva e osserva che queste donne sono molto assenti nei vangeli, anche quando dovrebbero esserci, per esempio quando ci sono i bambini; nella scene dei capitoli dal 18 al 20 di Matteo ci sono temi che riguardano la casa, la vita del matrimonio, dei figli, insomma si ha a che fare con tematiche che non sono solo da uomini, per esempio il cap 18 si apre con Gesù che chiama a sé un bambino e vede che se c'è un bambino deve esserci una mamma da qualche parte perchè i bambini raramente nell'antichità venivano affidati ai padri, dunque doveva esserci una donna e invece non compaiono le donne, compare soltanto qui questa mamma. Se le donne ci sono, esse hanno un ruolo poco attivo e l'eccezione è proprio la madre dei figli di Zebedeo che viene introdotta in questo contesto che ci rimanda subito alla morte di Gesù, infatti la conclusione di questo brano che stiamo leggendo è che Gesù parla del proprio servizio dicendo ai discepoli che si sono scandalizzati come i due fratelli: "voi non fate come i pagani, ma ricordatevi che chi vuole essere il più grande tra voi deve essere servitore, come il Figlio dell'uomo che non è venuto per farsi servire ma per servire e dare la propria vita in riscatto dei molti.. ". Allora per quale ragione questa donna è introdotta proprio in preparazione di queste risposte di Gesù che dice in fondo a lei ma a tutti, che il vero servizio non è stare alla destra o alla sinistra nel nuovo governo, ma è un altro, è evidente che noi la ritroviamo proprio sotto la croce, guardate che anche qui Matteo compie un'operazione ardita perchè Matteo sposta le donne sotto la Croce. Le donne erano anche in Marco, ma la figura sotto la croce in particolare è una donna che Matteo non sa chi sia, questa Salome, allora Matteo mette sotto la croce di Gesù invece la mamma di Giacomo e Giovanni e dobbiamo rileggere brevemente questo versetto che è al capitolo 27° ed è una nota molto importante perchè anche qui ci dice la scelta che fa l'evangelista:



Mt 27, 55-56



Vi erano là anche molte donne, che osservavano da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. Tra queste c'erano Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo.



Dunque queste donne, esercitavano, ci dice Matteo la diaconia del servizio, questa parola si trova anche in Marco 15, 41. Quindi fino a qui Marco viene ricopiato fedelmente da Matteo. Ma ad un certo punto Matteo cambia, toglie Salome e dice che tra queste donne c'erano Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe e la madre dei figli di Zebedeo, è l'unica donna che viene raffigurata per due volte qui e nel vangelo secondo Matteo in questa situazione e in quella che stiamo vedendo da vicino. Allora la soluzione che possiamo prospettare e che questa donna riappare sotto la croce insieme alle altre donne che servivano Gesù che compivano questa diaconia. Questa donna è senza nome, questo dimostra probabilmente la realtà della comunità cristiana e delle donne che non avevano un ruolo importante, è un ruolo di servizio perchè servivano Gesù, ma non è tale da essere ricordata se non per nome del marito e questa è una realtà sociologica di quel momento.

Questa donna, la madre dei figli di Zebedeo probabilmente rappresenta colei che davvero beve il calice e ha capito come si svolge questo servizio, questa diaconia. Lei viene rappresentata come una delle donne che servivano Gesù in Galilea e qui viene raffigurata mentre sta sotto la croce e gli uomini non sono sotto la croce. Questo è stato notato da molto tempo, tranne che nel vangelo di Giovanni che però evidentemente ha un altro interesse più simbolico però tutti e tre i vangeli sinottici ci dicono che gli uomini hanno abbandonato Gesù e sono scappati, fuggirono, ma le donne stanno, anche se a distanza, con Gesù fino alla sua morte e per questo vanno alla tomba.

Qualcuno ha spiegato che questo atteggiamento era molto rischioso e poteva mettere a repentaglio la vita di queste donne; abbiamo delle fonti antiche, per esempio Flavio Giuseppe, che racconta come era pericoloso sostare sotto la croce dei propri congiunti perchè si poteva essere considerati dei malfattori, complici di coloro che erano stati crocefissi.

Giuseppe Flavio dice che, sotto il governatore romano Felice, il numero dei ladri che egli aveva crocefisso, dei cittadini che potevano essere ritenuti associati a questi e che erano per questo puniti, era cresciuto enormemente. Per questa ragione le donne vedono e stanno a distanza, sono sotto la croce, ma temono probabilmente di essere prese, identificate e non possono correre più rischio di questo. Unica eccezione è Giuseppe d'Arimatea che per la sua posizione sociale evidentemente può compiere un gesto coraggioso e addirittura chiedere il corpo di Gesù, ma altri non possono farlo e il fatto che fossero donne non risparmiava loro il rischio della punizione. Anzi sempre Flavio Giuseppe ci ricorda che anche le donne e i bambini spesso venivano crocifissi. E allora qui troviamo il coraggio di questa mamma che, se chiede di poter usufruire per i propri figli di questo potere e di questo prestigio, invece viene invitata a bere il calice e lei effettivamente lo beve, scrive Saldarini, stando sotto la croce al momento della sua morte. Questa donna risponde con un servizio, con una diaconia che è molto diversa da quella che hanno dato i suoi figli che non ci sono ed è la diaconia della solidarietà e della prossimità e della vicinanza. Lo stare vicino a una persona che muore.

Ecco perchè in questo senso questa figura è molto importante perchè rappresenta, nel nostro itinerario che stiamo svolgendo in questi mesi, la controparte della diaconia del marito, che solo apparentemente è una diaconia più importante; anzi guardando da vicino i verbi che dicono il servizio io ho fatto una scoperta che non avevo mai consapevolizzato prima, la maggior parte delle volte in cui appare il verbo diaconeo nei vangeli sinottici, riguarda proprio le donne. Sia perchè le donne probabilmente sono viste come coloro che servono e il verbo diaconeo lo sappiamo nell'antichità classica indicava proprio il servire a tavola. Anche quegli angeli che alla fine della tentazione di Gesù, della prova di Gesù, dice Marco e con lui Matteo: diaconon auton quegli angeli si presume che abbiano portato da mangiare a Gesù dopo quaranta giorni e quaranta notti perchè aveva fame. Forse possiamo così interpretare anche l'angelo, che Luca non conosce, alla fine della tentazione di Gesù ricordate che solo Marco e Matteo dicono che gli angeli si avvicinavano a lui. Ma Luca conosce un Angelo alla passione di Gesù che va da lui a consolarlo, è l'unico che ci dà questo dettaglio, Gesù che suda sangue e l'angelo che si avvicina, forse potremmo intendere in questo senso il servizio di questi angeli. Dunque il verbo diaconeo appare due volte in relazione agli angeli alla fine della tentazione, tre volte per dire il servizio della suocera di Pietro che serve Gesù nei tre vangeli sinottici, appare due volte nel contesto che vi ho detto, cioè delle donne sotto la croce e vengono chiamate quelle che avevano servito Gesù e poi appare il verbo diaconeo in Luca per dire delle donne che servivano Gesù e i discepoli con i lori beni, in particolare Luca al capitolo 8 versetto 3 si dice:



c'erano con lui alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità, Maria Maddalena dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna moglie di Kunsa amministratore di Erode, Susanna e molte altre che li servivano con i loro beni.



Si vede che Luca viene da un contesto Ellenistico, Greco di emancipazione della donna, anche in Marco c'è questo, vi faccio solo un esempio: Marco dice nella discussione sul divorzio che se un uomo divorzia dalla moglie o la moglie divorzia dal marito questa è una formula che non esiste in Dt 24 e che Matteo per esempio non dice. Con questo Luca dimostra di essere inserito in un contesto che è quello del mondo romano dove la donna poteva chiedere il divorzio, invece per Matteo, che vive in un contesto semitico, è l'uomo solo che può divorziare appunto seguendo la torà. Ebbene Luca che è più attento alla presenza delle donne dice che c'erano con Gesù alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità, Maria Maddalena dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna moglie di Kunsa amministratore di Erode, Susanna e molte altre che li servivano con i loro beni e poi usa il termine diaconeo per parlare di Marta che serviva Gesù, anche questa è una scena solo Lucana, le altre volte il verbo diaconeo viene utilizzato per parlare dei servi, come nella parabola dei servi o del servo inutile e poi il verbo servire appare per tre volte per dire il servizio di Gesù. Nel testo che abbiamo letto Gesù dice che il suo servizio è proprio questo, e quale è il servizio di Gesù? Concludiamo proprio con questo aspetto importante per stabilire nei contorni precisi la differenza tra i tanti servizi. Il servizio di Gesù è quello che spiega tutti gli altri e dà senso a tutti gli altri.

Io direi davvero che, se dovessimo fare un articolo o una voce di dizionario basata proprio su quello che significhi la diaconia nei Vangeli, dovremmo dire che la diaconia è femminile. E’ femminile ma per quanto riguarda l'occorrenza del verbo, ma se dovessimo dire che cos'è la vera diaconia noi potremmo dire che non è né quella delle donne né quella dei servi della parabola, ma è quella di Gesù. La diaconia di Gesù dice quale è il suo speciale servizio dal quale vengono originati tutti gli altri, la diaconia di Gesù è il modello per tutti gli altri. Il servizio di Gesù lo dice proprio alla fine di questa scena che abbiamo commentato oggi è:



28Come il Figlio dell`uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».



La parola riscatto non ci deve spaventare, non significa pagare un prezzo come se Gesù avesse dovuto pagare un prezzo a un dio cattivo, questa è una teologia che ha avuto spazio nella nostra chiesa, ma che finalmente ce ne siamo liberati, non possiamo pensare a un Dio che chiede un prezzo, piuttosto questo significa che Gesù ha pagato un prezzo, l'ha pagato veramente, ma non a Dio, l'ha pagato per propria scelta e l'ha pagato in fondo per la propria coerenza, per se stesso.

Questa parola litron riscatto, in ebraico è identica alla radice della parola kippur che conoscete, questa parola appare solo qui nei vangeli, quando Gesù dice proprio qual'è il suo servizio, non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita (psichè) in riscatto per molti».

Per capire che cosa significhi vi faccio solo due esempi che troviamo nella letteratura antica e biblica, in particolare perchè ci spiegano il modo in cui avrebbero potuto comprendere al tempo di Gesù queste espressioni.

- C'è il caso di un martirio di un sommo sacerdote: è Eleazaro che muore nella persecuzione di Antioco IV Epifane, quando arrivano i Greci e vogliono ellenizzare Israele, nel IV libro dei Maccabei, che è un apocrifo, che è su per giù del tempo in cui vengono scritti i vangeli e questo sacerdote viene messo a morte, ma appena poco prima della morte alzando gli occhi a Dio dice: Signore tu sai che avrei potuto essere salvo rinnegando la mia fede, ma muoio nei tormenti per la legge. Non è cristiano evidentemente e dice muoio per la Torà. Abbi pietà del tuo popolo e fa che la mia condanna serva a loro giovamento, fa che essi siano purificati mediante il mio sangue e prendi la mia vita in riscatto per loro. Dunque c'è un precedente come sentiamo nella storia del popolo di Gesù in cui un sacerdote comprende che si può dare la vita per qualcun altro.

- La stessa espressione si trova in un libro canonico, il Secondo libro dei Maccabei quando una mamma, la mamma dei sette figli Maccabei, il cui martirio è narrato in questo libro, commenta di aver dato la propria vita in cambio dei peccati della nazione. Insomma c'è davvero qualcosa che dice che uno può dare la propria vita per gli altri. Non sono molti gli agganci che possiamo fare con la letteratura Giudaica e dunque vuol dire che questa è effettivamente una novità cristiana, collegata alla figura del Servo sofferente che, guarda caso, è un servo vero e proprio, un diacono che dà la sua vita e che si sarebbe addossato i peccati e le infermità proprio come Gesù e leggo l'ultimo testo, la Prima lettera di Pietro (1 Pt 2, 24) dove si dice che Gesù portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia, proprio come Isaia (cap 53) che dice il servo si è caricato delle nostre sofferenze e si è addossato i nostri dolori ed è stato trafitto per i nostri delitti. Dunque è da questo servizio di Gesù, che in fondo vuol dire “dare la vita in riscatto per molt”, (ecco questo tutti ormai convengono nel dire che si tratta di un semitismo, non spaventiamoci, il nostro Papa vuole cambiare questa formula e probabilmente lo farà, vuole che durante l'eucaristia si torni all'antica formula che troviamo effettivamente nelle parole di Gesù quando dice: questo è il sangue dell'alleanza versato per i molti.. per i molti, ma questo molti vuol dire in fondo tutti, è una salvezza per tutti, però è vero che gammaticalmente sarebbe più corretto così perchè poi dovremo spiegare che molti vuol dire tutti). Allora il servizio di Gesù ha avuto il suo scopo, il suo termine, nel dare la sua vita per molti, per tutti e ha avuto la sua conclusione in questo atto di donazione. Mi sembra che così si spieghi lo stare sotto la croce di questa donna, la mamma di Giacomo e Giovanni che avrà capito finalmente allora, lì sotto la croce, che cosa voleva dire offrire la propria esistenza, perchè ha visto Gesù farlo e perchè anch'essa avrà potuto dire di poter bere quel calice e così di dare anch'essa la propria vita in riscatto. In fondo la diaconia di Gesù è come quella che poi possiamo portare avanti noi, nelle tante modalità in cui si può essere diacono, purchè non manchi questa componente che è la novità di Gesù e su cui ha insistito e cioè “servire” significa dare la vita propria.



Lezione N° 7 di SPIRITUALITA' - Padre Giulio Michelini 10 aprile 2010.



La testimonianza degli Angeli e delle Donne



Parlerò oggi del ruolo diversificato nella testimonianza degli angeli e delle donne.

In particolare lo farò seguendo il vangelo di Matteo, che si distingue dagli altri per questa attenzione. Vi confesso che questa mia meditazione, oltre ad avere ovviamente un risvolto Pasquale, tiene presente il contesto nel quale voi vivete e cioè la vostra relazione di coppia e dunque il fatto che quasi la totalità di voi avete un ministero che vivete che è quello del matrimonio, un sacramento che mettete in atto e un altro che già vivete o che alcuni si preparano a vivere che è il ministero dell'ordine. Per questo ho scelto il testo di Matteo perché mi sembra che ci dia qualche indicazione al riguardo.

Non posso però nascondervi che questa mia meditazione viene influenzata anche da quello che sta succedendo nella Chiesa e fuori della Chiesa a riguardo del dramma della tragedia dei sacerdoti e dei vescovi pedofili. Anche se sottotraccia questa cosa mi crea molta amarezza, non nego che io ho una mia lettura, vi dico questo perché vorrei, anche eventualmente al termine della nostra meditazione, sentire la vostra opinione al riguardo, perché la vostra è un'opinione qualificata in quanto siete uomini e donne sposate.

E' vero che il 70% delle violenze verso i minori o gli infanti hanno luogo in famiglia, io ho una conoscenza di prima mano di questa cosa perché un mio amico, dell'oratorio di Milano dove vivevo, porta su di sé il dramma di questa cosa, di uno zio che lo violentava ripetutamente e questa cosa tra l'altro era nota a tutto il consesso familiare perché era così e lo sapevano tutti. Questa questione riguarda evidentemente anche le vostre realtà di vita, poiché, in quanto appartenenti alla Chiesa, non possiamo fare a meno di avere delle ricadute. Ci sono già delle ricadute, io ho confessato molto in questi ultimi giorni, ore e ore di confessione sia qui, che a Ponte d'Oddi, che in altre Parrocchie e vi devo dire che almeno tre persone, non parlo di comunisti o anticlericali, ma di persone che sono venute a confessarsi e mi hanno detto: "Padre io non ho più fiducia nella Chiesa... Io ho perso fiducia nel Papa... Padre mi dica che cosa sta succedendo..". Credo che questo sia un fenomeno che si stia allargando e certamente ora quello che ci preoccupa non è tanto il fatto in sé, quanto invece l'interpretazione di questo evento e come sarà portato avanti dai fedeli, in particolare i più marginali, anche perché noi nella Chiesa credo che ci rimaniamo, a meno che non prendiamo una botta in testa. Ma certamente coloro che vivono in una situazione di fragilità, che sono poi i piccoli di cui parla Matteo (chi scandalizza uno di questi piccoli), questi possono allontanarsi dalla Chiesa rischiando di non avere più alcun riferimento per la propria vita. L'ultima cosa che vi dico è questa: proprio ieri mi diceva un confratello sacerdote, che in questo periodo celebrerà i sacramenti, e mi ha detto che una ragazza è andata da lui per la confessione pre-cresimale e gli ha detto: "guarda che io adesso io mi confesso, ma non so se rimango nella chiesa, dopo quello che sta succedendo. Prenderò la Cresima e poi vedrò!". Il prete gli ha detto: "Allora non ricevere nemmeno il sacramento!". Sarebbe interessante capire quale risposta dare.



Forse c'è qualcosa anche nella nostra meditazione che ci aiuta ad inquadrare questo problema.



Prima di tutto leggiamo il racconto dell’apparizione di Gesù dopo la risurrezione (Mt 28, 1-14). Notate che questo non è il racconto della risurrezione, questo perché la risurrezione non è raccontata in nessun racconto evangelico, c'è solo nel vangelo di Pietro (che è un apocrifo) il racconto di come Gesù è risorto:



Matteo Capitolo 28, 1-14





1 Dopo il sabato, all'alba del primo giorno della settimana, Maria di Màgdala e l'altra Maria andarono a visitare la tomba. 2Ed ecco, vi fu un gran terremoto. Un angelo del Signore, infatti, sceso dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. 3Il suo aspetto era come folgore e il suo vestito bianco come neve. 4Per lo spavento che ebbero di lui, le guardie furono scosse e rimasero come morte. 5L'angelo disse alle donne: "Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. 6Non è qui. È risorto, infatti, come aveva detto; venite, guardate il luogo dove era stato deposto. 7Presto, andate a dire ai suoi discepoli: "È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete". Ecco, io ve l'ho detto".

8Abbandonato in fretta il sepolcro con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l'annuncio ai suoi discepoli. 9Ed ecco, Gesù venne loro incontro e disse: "Salute a voi!". Ed esse si avvicinarono, gli abbracciarono i piedi e lo adorarono. 10Allora Gesù disse loro: "Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno".

11Mentre esse erano in cammino, ecco, alcune guardie giunsero in città e annunciarono ai capi dei sacerdoti tutto quanto era accaduto.12Questi allora si riunirono con gli anziani e, dopo essersi consultati, diedero una buona somma di denaro ai soldati, 13dicendo: "Dite così: "I suoi discepoli sono venuti di notte e l'hanno rubato, mentre noi dormivamo".14E se mai la cosa venisse all'orecchio del governatore, noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni preoccupazione".



Prima di riprendere questo testo vi prego di sottolineare alcune inesattezze che ci sono nella traduzione, inevitabilmente. Le donne (versetto 1) vengono a visitare la tomba, il verbo non è visitare, ma è teorein cioè a vedere il sepolcro, vengono a vedere, non è una visita; poi c'è una lieve inesattezza riguardo il saluto “caire” al versetto 9. E’ un saluto che dobbiamo decifrare, la CEI traduce “salute a vo”, però c'è dietro uno “shalom”. “Salute a voi” è un po' troppo neutro, qui c'è dietro sicuramente il saluto di pace del risorto. Quel “salute a voi” è in realtà un “rallegrati”, come quello che l'angelo dice a Maria in Luca. Comunque il Delits traduce “shalom” nella traduzione e quindi ci immaginiamo Gesù che dà la pace. Poi si parla dei custodi (custodias), la CEI traduceva le guardie, la guardia in realtà ha un altro termine specifico, usato in un altro contesto nel vangelo di Matteo, qui è da intendersi il custode.

Invece il problema è proprio il verbo ab angheilo che adesso vi scioglierò meglio perché è il verbo a cui sono indicate le donne e appunto che indica il compito che loro devono svolgere. Questa scena del racconto dell'apparizione di Gesù secondo Matteo è molto interessante, perché ci presenta, molto più degli altri vangeli, il servizio e degli Angeli e delle donne. Anzitutto qui le donne compiono un ministero perché, se leggiamo invece il Vangelo di Marco, noi sappiamo che nella finale autentica, quella cioè attribuibile a Marco, le donne non fanno nulla, non parlano a causa della paura. Il vangelo di Marco, al capitolo 16 e al versetto 8, finisce proprio con la particella gar efobunto gar, non dissero niente a nessuno per la paura, un termine che ricorre anche qui, ma che però dobbiamo vedere perché non c'è soltanto la paura, ma c'è anche la gioia. Quindi la paura è coniugata alla gioia, ed è una delle sensazioni che vivono le donne, mentre in Marco la finale autentica, quella antica, dice proprio che queste donne hanno paura e dunque non dicono nulla a nessuno. Chi ha partecipato all'eucaristia di oggi sa, abbiamo proprio letto la finale canonica, quella lunga, che parte dal versetto 9 e arriva fino al 20, qui sotto i versetti 8 e 9, dove si pensa che il vangelo di Marco finisca. (gli altri versetti seguenti sarebbero un'aggiunta posteriore).



Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: "Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto". Esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite.



E dunque gli studiosi si domandano che cosa è successo. Due sono le ipotesi principali: la più frequentata dice che Marco finisce il vangelo sospeso, le donne non dicono nulla e dunque l'annuncio della risurrezione viene dato solo dagli Angeli: "è risorto". Invece in Matteo viene dato dalle donne. Un'altra soluzione, un po' meno frequentata, ma che si fa strada dice che forse il Vangelo di Marco non finiva così, finiva con una finale effettivamente simile alle altre che però è andata perduta. Non è strano pensare a questo tipo di mutilazione del testo, perché i codici in particolare sono carenti nelle parti iniziali e finali del testo, i primi fogli e gli ultimi possono facilmente scomparire, ma di per sé possiamo immaginare che Marco potrebbe aver deciso di far finire il Vangelo con l'annuncio che pende sulla bocca delle donne, ma che efo- bunto, hanno paura e non dicono nulla.

Invece qui è molto diverso perché le donne intanto vanno al sepolcro non per ungere il corpo del Signore. Nel vangelo di Marco, se lo rileggerete, vedrete che loro compiono un servizio pietoso che è proprio quello della sepoltura.

In Matteo questo non è possibile perché ci sono le guardie, questa notizia ce la dà Matteo e Matteo mette questi shomerim questi custodi “custodios” davanti alla tomba, perché c'è un pezzo di questo vangelo nella parte finale che ci racconta di questa paura che insorge tra le gerarchie del tempio e questo dialogo che si ha con Pilato perché la tomba venga custodita.

Ci sono dunque le guardie e quindi probabilmente per questa ragione le donne vanno al sepolcro non per ungere il cadavere, anche perché forse è shabbath e dunque non si poteva fare questo lavoro, in ogni caso vanno a vedere, le donne vanno per “orrei sai ton tafon” e qui potremmo elaborare su che cosa vanno a vedere, vanno a vedere un morto in fondo, vanno a vedere nemmeno un morto, vanno a vedere una tomba, come spesso noi andiamo alle tombe. Lo sapete che la donna è deputata a questo servizio nel mondo giudaico perché, secondo i testi talmudici, è considerata impura per la maggior parte del periodo dell'anno, una donna è quasi sempre impura e quindi può andare in un cimitero. Mentre gli uomini, e in particolare se ci sono uomini di famiglia sacerdotale, non possono entrare in un cimitero. Il Coen non può entrare in un cimitero, in particolare questo lo capiamo anche dal vangelo di Giovanni, se è vero che Giovanni era di famiglia sacerdotale, come alcuni adesso immaginano sulla scorta di quella notizia che ci dà la passione di Giovanni. Mi riferisco al fatto che Giovanni (il discepolo amato da Gesù) entrò ad ascoltare il processo di Gesù del sommo sacerdote "perché era conosciuto" e per altri elementi che ci sono nel vangelo di Giovanni, se davvero questo discepolo era di famiglia sacerdotale si spiega la ragione per cui questo discepolo non entra nella tomba di Gesù. Ricordate che Giovanni ci racconta che dopo l’apparizione a Maria, Maria va a parlare con i discepoli: allora Giovanni e Pietro corrono a vedere e Giovanni lascia entrare Pietro, questo è un elemento chiarissimo del testo, perché Giovanni pensa che ci sia un cadavere ed, essendo di famiglia sacerdotale, non si può nemmeno avvicinare ad un cadavere, quando però Pietro scopre che non c'è il cadavere di Gesù, allora entra anch'egli.

Invece qui le donne che cosa vanno a fare? Vanno a visitare un morto, vanno a trovare una tomba. In Marco si domandano: chi rotolerà via la pietra e dunque devono ungere il corpo e hanno questa domanda, invece qui non c'è questa domanda perché in Matteo l'evento è presentato come in presa diretta (scrive Mello), cioè mentre si svolge, abbiamo sentito in particolare che interviene il primo protagonista di questa scena che è l'Angelo. Accettiamo la versione di Matteo che ci parla di un Angelo, in Luca ce ne sono due, in Marco c'è un angelo, ma è già dentro la tomba. Entriamo nella scena di Matteo perché qui è chiarissimo quale è la funzione dell'angelo, l'angelo però non agisce da solo perché appare un angelo del Signore, un angelo che discende dal cielo, che viene cioè dalla sfera di Dio, viene da Dio stesso. In particolare in Matteo “cieli”, “cielo” è un modo per parlare di Dio, ricordate che Matteo non usa l'espressione basileia tou Teou, ovvero regno di Dio, ma usa basileia ton uranon, ovvero regno dei cieli e dunque in Matteo in particolare anche se c'è un'altra sottolineatura, cieli significa luogo di Dio, il regno di Dio è il regno dei cieli in Matteo e dunque questo è un angelo del Signore, potremmo dire la presenza del Signore stesso che scende.

L'Angelo sposta la tomba, ecco chi solleva questo masso, questa pietra e si siede sopra il masso spostato. Ma tutto questo è accompagnato da un terremoto l'abbiamo sentito questo sisma evento megas al versetto 2 che precede l'arrivo dell'angelo. Cioè in fondo l'Angelo è accompagnato da fenomeni di tipo naturale, i fenomeni sono apocalittici, ma naturali, come le piaghe d'Egitto che sono fenomeni naturali, che vengono enfatizzati, ma che dicono di una comunione tra Dio e la natura, al punto che la natura stessa interviene per punire il Faraone, così come qui la natura stessa, con un sisma, permette che si apra la tomba. L’Angelo dunque è accompagnato da fenomeni che sono fenomeni meravigliosi di tipo apocalittico tipici di un mondo che interpreta la presenza di Dio in questo modo.

Ecco che l'Angelo si può solo affidare dunque a questa forza che viene dalla natura che permette a lui di agire con questo potere. Questo sisma aveva già avuto luogo, se ricordate, in Matteo 27, 51, cioè alla morte di Gesù Matteo ci dice che si squarcia il velo del tempio e c'è un grande terremoto. Attenzione, non è che crolli il tempio, attenzione questa non è una lettura tipicamente anti-giudaica che non c'è nel vangelo. Un mio studente, che ora studia sacra scrittura a Gerusalemme, si è esercitato nella tesi di Baccalaureato, interpretando questo scisma del velo e la lettura che facciamo e che è la più probabile è che questo rappresenta la rivelazione di Dio: Dio si mostra, il velo si apre. Non vuol dire, come nel film di Mel Gibson The Passion, che alla morte di Gesù si rompe il tempio, l'altare si spacca e il culto antico è finito, alla morte di Gesù il culto continua tranquillamente fino al 70 dopo Cristo, quando arriveranno i Romani. Forse continuerà ancora ulteriormente fino al 195, perché i Romani lasceranno forse in piedi l'altare degli olocausti. Non si rompe nulla, è un'immagine che dice che si apre il velo e tutti hanno accesso a Dio. Dunque è la rivelazione della verità, questo può significare l'apertura del velo del tempio. Ma c'è il terremoto e la morte di Gesù e la sua risurrezione sono dunque legati da questo segno naturale che dice che la natura e Dio sono legati con un doppio filo a questo evento.

E che cosa fa l'Angelo? L'Angelo non è solo, come in Marco, l'interprete. In Marco l'Angelo, vi ricordate, è un giovanetto, è interessante perché Cignelli ha scritto un articolo, sostenendo che questo angelo è Gesù stesso, che è risorto e si trova accanto alla tomba e viene scambiato per un giovane. In Marco in ogni caso l'angelo parla e basta e dice: "Chi cercate? Non è qui, è risorto!". Invece qui l'Angelo agisce molto di più perché scende, apre la tomba con l'ausilio di questo sisma e poi si siede. Che cosa fa l'Angelo dunque? E quale è la sua funzione?

Intanto è certamente un angelo che ha il compito di rivelare qualcosa da Dio, in Matteo questo è tanto più vero perché è il vangelo che più insiste su questa distinzione, è l'angelo che arriva in un momento delicato della storia, in particolare della storia della famiglia di Gesù. Quando troviamo in Matteo gli Angeli? Li troviamo in particolare nei primi due capitoli, quando si rivelano in sogno prima a Giuseppe e poi ai Magi e sempre intervengono in un momento delicato, perché (non vi faccio tutta la cronistoria) Giuseppe rischia di divorziare da Maria e ogni volta gli Angeli sono risolutivi perché aiutano gli uomini a comprendere il disegno di Dio. Ecco che dunque la missione dell'angelo ha una funzione di aiuto nello spiegare un evento inspiegabile all’uomo. Questa funzione qui è accentuata dal fatto che l'angelo fa quello che l'uomo non può fare, che cosa fa? Apre la tomba! E dunque solo Dio può compiere questo, ma poi la missione dell'angelo si interrompe bruscamente, io direi in due modi. Il primo: si siede; nell’ interpretazione di questo testo alcuni non danno rilievo ai dettagli, ma io credo che la Parola di Dio abbia davvero un significato in ogni piccola particella che contiene, sono sicuro che Matteo non ha aggiunto questa cosa in modo superficiale. L'angelo dopo aver detto: "non è qui, è risorto, venite a vedere il luogo" si siede ed è seduto su questa pietra che ha rovesciato. Che cosa può significare lo stare seduto dell'angelo; due interpretazioni hanno avuto più fortuna:

1) Quella di San Tommaso che dice che l'angelo si siede per insegnare, perché l'angelo assume il tipico gesto dei rabbini, i rabbini si siedono, ricordate proprio in Matteo 5,1 "Gesù vedendo le folle salì sul monte, si sedette, e aprendo la bocca cominciò a dire...", dunque i rabbini insegnavano seduti, non erano come Aristotele e gli altri peripatetici che insegnavano camminando, i rabbini siedono. Tommaso dice: "L'Angelo è un doctor Divinae Resurrectionis",

cioè è il dottore della resurrezione divina ed insegna quello che è accaduto: è risorto e dunque ha un atteggiamento da cattedra.

2) Altre interpretazioni indicano che questo stare seduto sulla tomba indica una vittoria sulla morte, è molto bello questo gesto di serenità, uno sta seduto quando sta tranquillo, quando sta bene, non è agitato e dunque questo è un gesto di vittoria. E' vero che il Cristo è rappresentato come ritto in piedi, noi abbiamo l'immagine fortissima dell'Apocalisse che dice che l’agnello era sgozzato come Abele sgozzato da Caino, ma l'Apocalisse dice che l'Agnello è ritto, sgozzato, in piedi e noi sappiamo che la CEI ha corretto la traduzione della scena dell’ apparizione ai discepoli quando nel vangelo secondo Giovanni traduce stette in mezzo a loro, i Diaconi l'avranno notato perché è cambiata la traduzione ed è proprio il verbo “stare in piedi”, è il tipico stato di chi sta in piedi.

Io penso che ci sia un'altra lettura che possiamo dare: l'Angelo si siede perché ha finito il suo compito, cioè quello che doveva dire l'ha detto e infatti la missione dell'Angelo si ferma con l'altro segnale: iddu eicon iumin “ecco ve l'ho detto!”. Cioè quando lui dice: ve l'ho detto! Vuol dire che ha completato, ha terminato, ha portato a fine la missione che gli era stata affidata, cioè quella di essere messaggero e di annunciare e quindi ha finito di fare quello che doveva fare, ha aperto la tomba, è sceso, si è seduto, dice: hinne ammarti iumin eicon. Ve l'ho detto. E dell'Angelo poi non si parla più, perché si chiude quella che è la sua funzione, quello che è stato il suo ministero, il suo compito. Quello che doveva dire l'ha detto, quello che doveva fare l'ha fatto, ora tocca ad altri e infatti è chiaro il passaggio che qui viene compiuto dalle donne. Sono infatti le donne che possono ascoltare quello che l'angelo ha da dire, vi faccio notare che al versetto 4 si dice che ci sono gli altri interlocutori, che erano gli shommerin, cioè le guardie, ma che il testo dice che erano come morti. Questa è un'ottima traduzione letterale hos necroi erano come morti, la vecchia traduzione diceva che erano tramortiti, era una traduzione non alla lettera, se erano come morti vuol dire che non possono ascoltare, o meglio non sono partecipi come le donne, ma poi sopratutto questo dell'essere alla tomba come morti è molto forte. Perché le donne non sono come morte, perché loro no? Uno dei presenti risponde: Potrebbe essere perché in quel momento si compie un giudizio? Anche nella scena del giudizio finale il Signore è seduto. Risponde P.Giulio: sì potrebbe essere interessante non avevo riflettuto su questo; di fronte a questo annuncio si compie un giudizio perché alcuni sono morti e le altre vanno con paura, ma con gioia ad annunciare.

Che cosa dice l'Angelo e perché le donne vanno ad annunciare? Vanno perché hanno cercato il Signore, "Non abbiate paura!" questo è l'annuncio sulla bocca dell'Angelo mefo bisto fobeiste al versetto 5, vi ricorderete che l'angelo appare a Zaccaria e dice così e anche a Maria dice “non temere”, naturalmente non possiamo lavorare sull'Italiano, ma sul greco; dunque sia a Zaccaria che a Maria l'angelo in Luca dice “non temere”. Le donne erano andate , abbiamo sentito al versetto 1, a vedere, come spettatrici, ma in realtà ora ci viene detta la ragione per cui sono lì. Sono lì per assistere a qualcosa di cui l'Angelo si fa interprete.

L'Angelo è capace di interpretare, di svolgere questa funzione. Per esempio, nel vangelo di Marco, l'Angelo svolge una funzione interpretativa dell'evento, spiega cosa è successo, perché nessuno può sapere che cosa è successo, non lo può sapere se non c'è un Angelo che te lo dice, è chiaro che alla risurrezione di Gesù non ha assistito nessuno. E’ un evento metastorico e dunque c'è qualcuno che lo spiega. L'angelo non spiega soltanto ciò che è accaduto è stato sollevato, è stato risuscitato (egherze è un passivo!) ma dice anche voi stavate cercando il crocifisso (zveteo è un verbo molto importante bakasce in ebraico perché è il verbo che ricorre, per esempio, molto spesso nei salmi, è la più alta occorrenza di questo cercare), colui che cercavate, e questo cercare è il verbo di colui che cerca Dio. Ho controllato tutte le occorrenze nei salmi, 26 volte viene usato il verbo “cercare”, 8 volte si dice dell'anima del credente che cerca Dio, dunque questo verbo, il verbo “cercare” è molto forte, connotato, le donne sono lì e l'angelo dice: “ so che cercate Gesù, quello crocifisso”. Ebbene come dice anche il vangelo di Marco l'angelo dice: “non è qui, è risorto come aveva detto!” Ed ecco che parte l'annuncio, e quindi queste donne che erano venute perché cercavano il Signore, ma che in fondo erano solo spettatrici perché erano venute a vedere, ora sono inviate.

Che cosa fa l'Angelo dopo aver concluso con questa formula che abbiamo commentato “ecco io ve l'ho detto?”. Non lo sappiamo perché la tensione ormai si sposta su queste donne che abbandonano presto il sepolcro. C'è questa fretta che viene, come abbiamo sentito, da due sentimenti: in Marco c'era solo la paura, il vangelo di Marco, vi ho detto, ha come ultima parola autentica al versetto 8 del capitolo 16 è “deniu denei pan efobunto gar” non dissero nulla a nessuno perché avevano paura; dunque c'è solo questa fobia, c'è la paura! Ma qui le donne vanno e con timore, ma anche gioia grande (è la stessa parola con la quale saranno salutate dal risorto caire) cai caraaz megales con gioia grande corrono, a fare che cosa? Ed è qui che il testo in traduzione è molto debole perché qui il verbo è, sentitelo in greco: ab angheilo, cioè diventano angeli, gli angeli in greco sono oi angheloi, anghelos il verbo che dice l'annuncio (che la CEI traduce con diedero l'annuncio) è angheilo non c'è differenza tra angheilo e ab angheilo è una sfumatura, le donne, vi leggo il greco, ab angheilas tois.. (corsero a dare l'annuncio) dunque sono, hanno la funzione dell'angelo, che l'angelo ha dismesso come abbiamo capito per i due gesti che compie di sedersi e quello che dice ve l'ho detto.

L'Angelo è infatti un messaggero, le donne sono messaggere dell'annuncio. Dove vanno le donne? Questo è importante. Vanno dai suoi discepoli, questo ora cambia, non vanno dai discepoli ma vanno ai fratelli, corsero in fretta, ma solo Matteo ci dice che le donne vennero intercettate. Quindi mentre vanno per compiere questo compito da messaggere che è stato loro affidato, proprio mentre vanno Gesù le incontra, è lui che si fa incontro a loro ed ecco Gesù annuncia la gioia caraz megales, e dice loro caire te alla lettera abbiamo detto rallegratevi, gioite, e poi le donne lo adorano, gli cingono i piedi, ci ricorda qui la scena del vangelo di Giovanni dove Maria Maddalena vuole afferrare Gesù e Gesù dice non mi trattenere. Poi Gesù dice queste parole bellissime,”non temete”, e dunque mefobiste, e dunque “non abbiate paura”, perché evidentemente quando c'è di mezzo Dio, quando c'è l'incontro con il Signore c'è sempre questo timore, perché la relazione con Dio causa paura, ma la relazione con il risorto la toglie, se vogliamo.

Ecco perché le donne in Marco hanno paura e non dicono nulla a nessuno: perché non hanno incontrato il Risorto! Invece qui incontrano il Risorto che dice loro: "non abbiate paura! Andate!". Ed ecco di nuovo la missione! Matteo si distingue dagli altri Vangeli perché ha la grande missione (è una formula tecnica che ora dicono in inglese) “great commission”, il grande mandato che è quello che chiude tutte le parole di Gesù: “ andate, fate discepoli tra tutti i pagani, battezzate tutti i popoli..”. Ma prima di questa grande missione c'è quella alle donne, perché Gesù dice: “andate ad annunciate ai miei fratelli”, qui è interessante perché cambia il nome dei destinatari. Matteo diceva che stavano andando dai discepoli, Gesù le intercetta e dice loro: andate dai miei fratelli. Che cosa ci ricorda questo nome, perché è importante che le donne siano incaricate di compiere questo compito. Intanto non è nuovo questo termine in Matteo. Vi dò due luoghi dove Gesù parla dei suoi fratelli: Mt 12, 49, ricordate quando Gesù dice, questi, ecco mia madre e i miei fratelli : chiunque fa la volontà del Padre questi è mio è mia fratello, sorella e madre. Poi c'è nel lungo discorso di Matteo 24 -25 cioè nel discorso escatologico e nel giudizio dei pagani di Matteo 25, 40 Gesù dice quello che avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli l'avete fatto a me.

Vi lascio nel concludere questa domanda, quando si legge la Scrittura bisogna sempre collocare i termine nel contesto, qui potete fare voi questi collegamenti, io penso che ci sono altri due sensi perché Gesù chiama ed invita le donne ad andare dai fratelli:

- intanto nella tradizione qui c'è dentro il perdono, Gesù è stato da poco rinnegato, tradito, abbandonato in particolare dagli uomini, le donne sono rimaste vicine alla croce (l'abbiamo visto la scorsa volta), lo dice due volte Matteo, guardavano da lontano, abbiamo letto quel testo di Giuseppe Flavio, che dice chi si avvicina alla croce viene preso come complice e quindi rischia la vita, Giuseppe Flavio ci dice che venivano crocefisse anche donne e bambini, Giovanni ci dice che stavano sotto la croce, ma questo proprio per quanto dice Giuseppe Flavio sembra proprio poco probabile, pensare a delle donne sotto la croce è difficile, forse le guardie si sono commosse e hanno accettato di lasciare Maria, degli uomini sotto la croce avrebbero dato una chiara manifestazione di complicità, dopotutto lui era stato accusato di una rivolta, di essere un Re, che voleva pretendere di essere un Re, era considerato un rivoluzionario e proprio per non essere coinvolte gli uomini sotto la croce non ci sono stati. Forse dobbiamo ringraziare perché se fossero stati sotto la croce sarebbero magari morti e non ci sarebbe la Chiesa, non lo sappiamo. In ogni caso la tradizione ha letto questo titolo, l'andate dai miei fratelli come un senso di perdono, cioè sono ancora due fratelli, anche se (qui c'è il termine proprio maschile) adelfoi cioè i fratelli maschi non adelfe cioè andate dai miei fratelli uomini, per dire loro che li ho perdonati.

- Io penso che ci sia un altro senso che possiamo dare, cioè Gesù sta mandando le donne a loro perché veramente ora sono fratelli di Gesù, in quanto Gesù è passato attraverso la morte, cioè: chi è il fratello in fondo? E' uno che vive con te quella realtà fino in fondo, non è l'amico o lo sposo, questo l'abbiamo detto quando abbiamo toccato il tema di Sara che viene chiamata mia sorella vi ricordate le meditazioni su Abramo? In fondo il fratello è quello in una famiglia vive tutto quello che vivi tu, proprio condividendo la tua sorte, il marito e la moglie o l'amico te lo trovi magari per un tratto di strada, speriamo lungo, ma se ti sposi non ti sposi da piccolo, certo devi prima aver vissuto con i tuoi, dunque il termine fratello dice una partecipazione ancora più stretta, se possibile, e ritorna tutto quello che abbiamo detto sulle ragioni per cui Abramo chiama Sara mia sorella. Dunque le donne hanno in mano questo grande compito che gli angeli hanno in mano questo grande compito che gli Angeli non possono più svolgere perché non hanno più i segni se non quello della Parola. Capiamo che l'Angelo si è servito di un terremoto, della presenza di Dio, della forza che gli ha permesso di rotolare la pietra e le donne invece che cosa potranno usare? Semplicemente questo doppio registro: quello dell'essere come angeli, ma in fondo di trattare gli altri come fratelli: “ andate dai miei fratelli”. Concludo dicendo che qui forse ironicamente anche altri danno l'annuncio,



11Mentre esse erano in cammino, ecco, alcune guardie giunsero in città e annunciarono ai capi dei sacerdoti tutto quanto era accaduto. 12Questi allora si riunirono con gli anziani e, dopo essersi consultati, diedero una buona somma di denaro ai soldati, 13dicendo: "Dite così: "I suoi discepoli sono venuti di notte e l'hanno rubato, mentre noi dormivamo". 14E se mai la cosa venisse all'orecchio del governatore, noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni preoccupazione".



al versetto 11 la CEI nuova traduce annunciarono mentre la vecchia CEI traduceva annunziarono, qui è stata modernizzata la traduzione e qui è vero il verbo è ancora ab angheilo, in fondo se guardate è interessante, anche questi custodi danno l'annuncio! Cioè è vero che erano come morti, os necroi, ma sarebbe da esplorare cosa fanno. E’ chiarissimo che vengono creduti dai sommi sacerdoti, a tal punto che vengono prese le contromisure, ma questo annuncio viene dato a qualcuno che ha altri interessi. E' però da sottolineare che oltre alle donne, per le quali si spende due volte il verbo anghello (e dunque sono come gli angeli), anche i custodi vanno in città a dare l'annuncio però questi custodi vengono pagati per tacere e quindi dal momento che vengono pagati il loro annuncio non conta più, perché prendono i soldi. Quindi il loro annuncio non è più gratuito e non è come quello che danno le donne: preso il denaro fecero come era stato loro detto e dunque il loro annuncio si ferma.



Quelli che hanno sentito l'inizio della meditazione sanno quello che ho detto, invece per tutti vale quello che ha detto il Papa il 5 aprile, al Regina Coeli, quando il Papa ha detto, spiegando questa scena, l'angelo della risurrezione richiama in fondo un altro significato, bisogna ricordare che il termine Angelo, oltre a definire gli angeli, creature spirituali dotate d'intelligenza e di volontà, (qui c'è la tradizionale dottrina degli Angeli, sapete che anche tra i teologi ci sono quelli che non ritengono reale l'esistenza degli angeli, il papa invece sottolinea quello che è il nostro catechismo "creature spirituali dotate d'intelligenza e di volontà", cioè non sono un genere letterario, come disse un professore di sacra scrittura all'Accademia Pontificia raccontando la scena dell'Angelo che si avvicina a Maria e le dice rallegrati Maria, io sono un genere letterario, )



Ecco il Regina coeli:



Il Papa spiega il significato del Lunedì dell’Angelo con le apparizioni angeliche, come raccontano i Vangeli, accanto al sepolcro vuoto per annunciare la Risurrezione di Gesù. Ma l’Angelo della risurrezione – sottolinea - richiama anche un altro significato:



“Bisogna ricordare, infatti, che il termine ‘angelo’ oltre a definire gli Angeli, creature spirituali dotate di intelligenza e volontà, servitori e messaggeri di Dio, è anche uno dei titoli più antichi attribuiti a Gesù stesso. Leggiamo ad esempio in Tertulliano: ‘Egli - cioè Cristo - è stato anche chiamato «angelo del consiglio», cioè annunziatore, che è un termine che denota un ufficio, non la natura. In effetti, egli doveva annunziare al mondo il grande disegno del Padre per la restaurazione dell’uomo’ (De carne Christi, 14)”.



Gesù, dunque, viene chiamato anche l’Angelo di Dio Padre: è il Messaggero per eccellenza del suo amore:



“Ciò significa che, come Gesù è stato annunciatore dell’amore di Dio Padre, anche noi lo dobbiamo essere della carità di Cristo: siamo messaggeri della sua risurrezione, della sua vittoria sul male e sulla morte, portatori del suo amore divino. Certo, rimaniamo per natura uomini e donne, ma riceviamo la missione di ‘angeli’, messaggeri di Cristo: viene data a tutti nel Battesimo e nella Cresima. In modo speciale, attraverso il Sacramento dell’Ordine, la ricevono i sacerdoti, ministri di Cristo; mi piace sottolinearlo in quest’Anno Sacerdotale”.





Benedetto XVI invita i fedeli a non avere paura di testimoniare Gesù Risorto nel mondo anche in mezzo alle difficoltà. “Grazie alla fede e alla fiducia in Lui, la luce della Pasqua colma i nostri cuori e dissipa le ombre di ogni tristezza”. Quindi, il Papa eleva la sua preghiera alla Regina del Cielo:



“Ci aiuti Lei ad accogliere pienamente la grazia del mistero pasquale e a diventare messaggeri coraggiosi e gioiosi della Risurrezione di Cristo”.



Infine, a braccio, un saluto ai tanti fedeli che lo hanno accolto con grande affetto e che lo hanno seguito anche da Piazza San Pietro:



"A tutti e ciascuno auguro di trascorrere serenamente questo Lunedì dell'Angelo ... forse viene un po' di sole dopo ... (applausi) ... ma in ogni caso risuona con forza l'annuncio gioioso della Pasqua: Cristo è risorto! Alleluia! Buona Pasqua!".. (Applausi)







Questa missione viene data a tutti nel Battesimo e nella Cresima, ma in modo speciale, nel sacramento dell'Ordine la ricevono i sacerdoti (avrebbe dovuto dire i diaconi e i sacerdoti) ministri di Cristo.



Allora questa chiusura è molto interessante perché dice che, della risurrezione di Gesù, uomini e donne siamo tutti come gli angeli, ciascuno nella propria funzione, chi nel sacramento dell'Ordine, ma altre anche nello stato laicale che propriamente attiene loro.

Questo mi sembrava anche un bel commento al vangelo di Matteo che ci spiega qualcosa sulla Pasqua.







Lezione n° 8 - Aquila e Priscilla (8 maggio 2010)



Parleremo oggi di Aquila e Priscilla, della loro esperienza apostolica e quindi vedremo, da vicino, anzitutto il testo del libro degli Atti che ne parla. Vi darò alcune illustrazioni e cercheremo poi di leggerne la figura in senso spirituale e utile per la nostra esperienza di Chiesa. Come ricordate i nostri incontri hanno un tema duplice, quello di far incontrare il sacramento dell'ordine (per coloro che già lo vivono o per coloro che vi vogliono accedere) con l'esperienza del sacramento del matrimonio e diremo che questa coppia davvero ci offre la possibilità di avere alcuni spunti utili.

Ero quasi tentato in realtà di parlarvi di un'altra coppia, quella di Emmaus. Ci sono almeno due articoli scientifici che postulano che i due di Emmaus potessero essere un uomo e una donna e dunque potremmo anche avanzare l'ipotesi che questi discepoli tristi, dal volto triste, possano rappresentare un'esperienza originaria di chiesa domestica. Non mi sono azzardato a tanto, anche perché la questione è discussa, ipotetica, anche se ci sono segnali nel testo abbastanza interessanti che potrebbero portarci a pensare a loro come a un tentativo lucano di leggere la coppia originaria. Ricato ha pubblicato un articolo proprio centrato su questo aspetto: c'è un verbo importante che ricorre due volte nella scena di Emmaus, annoikein, cioè aprire, Gesù apre le scritture e si aprirono gli occhi. L'unica altra volta in cui compare il sintagmas aprirsi gli occhi, è proprio in relazione alla coppia originaria, Adamo ed Eva. Dunque da tutto questo è stata avanzata questa ipotesi interessante. Noi comunque andremo in un terreno più frequentato, più sicuro, che è quello di Atti 18, dove ci viene presentata invece una coppia di cui siamo sicuri che si tratti di un uomo e di una donna, un marito e una moglie. Non sappiamo benissimo il nome di lei, sappiamo che lui si chiamava Aquila, lei viene chiamata di volta in volta Prisca, in una forma breve, o certamente Priscilla, non sappiamo nemmeno se Priscilla sia la stessa Santa di cui si fa memoria nella chiesa di Roma. Noi rimaniamo però a quanto dice il libro degli Atti degli Apostoli e cercheremo di leggerlo anche attraverso altre citazioni che sono invece nel corpus Paolino, cioè nelle lettere di San Paolo. Rileggiamo adesso



Atti 18, 1-28



Dopo questi fatti Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto. Qui trovò un Giudeo di nome Aquila, nativo del Ponto, arrivato poco prima dall'Italia, con la moglie Priscilla, in seguito all'ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. Paolo si recò da loro e, poiché erano del medesimo mestiere, si stabilì in casa loro e lavorava. Di mestiere, infatti, erano fabbricanti di tende. Ogni sabato poi discuteva nella sinagoga e cercava di persuadere Giudei e Greci.

Quando Sila e Timòteo giunsero dalla Macedonia, Paolo cominciò a dedicarsi tutto alla Parola, testimoniando davanti ai Giudei che Gesù è il Cristo. Ma, poiché essi si opponevano e lanciavano ingiurie, egli, scuotendosi le vesti, disse: "Il vostro sangue ricada sul vostro capo: io sono innocente. D'ora in poi me ne andrò dai pagani". Se ne andò di là ed entrò nella casa di un tale, di nome Tizio Giusto, uno che venerava Dio, la cui abitazione era accanto alla sinagoga. 8Crispo, capo della sinagoga, credette nel Signore insieme a tutta la sua famiglia; e molti dei Corinzi, ascoltando Paolo, credevano e si facevano battezzare.

Una notte, in visione, il Signore disse a Paolo: "Non aver paura; continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male: in questa città io ho un popolo numeroso". Così Paolo si fermò un anno e mezzo, e insegnava fra loro la parola di Dio.

Mentre Gallione era proconsole dell'Acaia, i Giudei insorsero unanimi contro Paolo e lo condussero davanti al tribunale dicendo: "Costui persuade la gente a rendere culto a Dio in modo contrario alla Legge". Paolo stava per rispondere, ma Gallione disse ai Giudei: "Se si trattasse di un delitto o di un misfatto, io vi ascolterei, o Giudei, come è giusto. Ma se sono questioni di parole o di nomi o della vostra Legge, vedetevela voi: io non voglio essere giudice di queste faccende". E li fece cacciare dal tribunale. Allora tutti afferrarono Sòstene, capo della sinagoga, e lo percossero davanti al tribunale, ma Gallione non si curava affatto di questo.

Paolo si trattenne ancora diversi giorni, poi prese congedo dai fratelli e s'imbarcò diretto in Siria, in compagnia di Priscilla e Aquila. A Cencre si era rasato il capo a causa di un voto che aveva fatto. Giunsero a Èfeso, dove lasciò i due coniugi e, entrato nella sinagoga, si mise a discutere con i Giudei. Questi lo pregavano di fermarsi più a lungo, ma non acconsentì. Tuttavia congedandosi disse: "Ritornerò di nuovo da voi, se Dio vorrà"; quindi partì da Èfeso. Sbarcato a Cesarèa, salì a Gerusalemme a salutare la Chiesa e poi scese ad Antiòchia.

Trascorso là un po' di tempo, partì: percorreva di seguito la regione della Galazia e la Frìgia, confermando tutti i discepoli.

Arrivò a Èfeso un Giudeo, di nome Apollo, nativo di Alessandria, uomo colto, esperto nelle Scritture. Questi era stato istruito nella via del Signore e, con animo ispirato, parlava e insegnava con accuratezza ciò che si riferiva a Gesù, sebbene conoscesse soltanto il battesimo di Giovanni. Egli cominciò a parlare con franchezza nella sinagoga. Priscilla e Aquila lo ascoltarono, poi lo presero con sé e gli esposero con maggiore accuratezza la via di Dio. Poiché egli desiderava passare in Acaia, i fratelli lo incoraggiarono e scrissero ai discepoli di fargli buona accoglienza. Giunto là, fu molto utile a quelli che, per opera della grazia, erano divenuti credenti. Confutava infatti vigorosamente i Giudei, dimostrando pubblicamente attraverso le Scritture che Gesù è il Cristo.



Abbiamo ascoltato il nome di Aquila e Priscilla più volte all'interno di questo racconto di una parte del secondo viaggio, in realtà è l'ultima parte del secondo viaggio di Paolo, compreso il suo soggiorno a Corinto. Ora riprendiamo da vicino tutti questi elementi che sono molto parchi, come avete ascoltato, non abbiamo granché dettagli, però possiamo lavorare sui verbi e vedrete che, da vicino, con la lente d'ingrandimento, questi testi ci suggeriranno qualcosa sull'esperienza che questa coppia fa insieme a Paolo.

Aquila e Priscilla, uno è originario del Ponto (cioè dell'Asia Minore), Priscilla non sappiamo molto, se non che il suo nome è latino. La prima notizia che abbiamo dal libro degli Atti è che questa coppia è arrivata dove si trova Paolo, cioè a Corinto, a causa di un editto, l'Editto dell'Imperatore Claudio. Prima di vedere questa questione tecnica diciamo brevemente che questa coppia incontra Paolo in un momento difficile per la propria esperienza. Potremmo parlare davvero del dispatrio di questi due che vengono da Roma, qui (Paolo) trovò un giudeo (Aquila) arrivato poco prima dall'Italia con la moglie Priscilla, e dunque siamo in una situazione di trasloco, che possiamo immaginare come una situazione difficile perché si tratta di un trasferimento e non un trasloco qualsiasi per cambiare casa, magari per poter avere una maggior metratura, ma si tratta di percorrere una strada faticosa. Anche Paolo di per sé sta venendo da un momento difficile della propria esperienza missionaria. Se torniamo indietro nel racconto del libro degli Atti, ricordiamo che l'ultimo evento che accade è che Paolo esce dall'Areopago di Atene con un mezzo fallimento, perché, gli Ateniesi hanno rifiutato il suo annuncio. Infatti gli Ateniesi non possono accettare questa teoria, questa dottrina e quest'annuncio, sentono parlare di una nuova divinità, questa anastasys e dunque non vogliono più ascoltare Paolo e così Paolo se ne và. C'è un verbo che accomuna il venire di Paolo da Atene a Corinto e il venire di Aquila e Priscilla da Roma a Corinto: è lo stesso verbo corizò proprio separarsi da. In termini tecnici, grammaticali, dovremmo proprio dire dopo che si era separato da, ecco in questo verbo non c'è semplicemente un venire un arrivare, si dice che sia Paolo sia questa coppia, si sono separati, hanno lasciato uno Atene e ha percorso un tratto breve di 60 Km circa, in due o tre giorni di viaggio, l'altra coppia certamente ha percorso una strada molto più lunga. In particolare Aquila e Priscilla si separano da Roma e hanno certamente alle spalle un'esperienza di persecuzione, come in effetti anche quella di Paolo se guardiamo bene. La persecuzione per Paolo è data in modo diremmo culturale: non è come quello che è già accaduto nel primo viaggio missionario vicino ad Antiochia di Pisidia, dove c'è il rifiuto da parte della sinagoga, la successiva lapidazione e il tentativo di messa a morte dell'Apostolo, ma certamente uscire dal luogo centrale della cultura e della storia di tutto l'occidente di quel tempo perché non si è ascoltati, era per sé una forma di persecuzione. Aquila e Priscilla invece sono espulsi da Roma a causa dell'Editto di Claudio, ne abbiamo notizia in alcuni luoghi biblici come questo. Luca ci scrive che Claudio aveva allontanato da Roma tutti i Giudei. Abbiamo diversi storici tra quali il più importante è Svetonio che intorno al 120 d.C. scrive che Claudio scacciò i Giudei da Roma, i Giudei che tumultuavano impulsore cresto. Tra l'altro questa è la più antica attestazione extrabiblica di Gesù; impulsore è una forma verbale che significa, a causa, provocati da, cioè i Giudei facevano dei tumulti provocati da Cresto. Siamo portati a pensare che Cresto indichi Cristo, magari letto male, scritto male perché il nome Cristos, noi ormai lo abbiamo immagazzinato, significa il Messia, ma non è detto che nel latino potesse avere la stessa comprensione e fosse capito come lo comprendiamo noi. I Giudei vengono espulsi a causa di Cristo, ci dice Svetonio; Orosio più tardi ci dice che questo editto viene proclamato dall'Imperatore Claudio nel 49 d.C..

E’ molto interessante che, per quanto riguarda l'incontro di Aquila e Priscilla con Paolo e il soggiorno di Paolo a Corinto, noi abbiamo due date: questa, e un'altra informazione storica, cioè quella che riguarda Gallione di cui abbiamo sentito parlare perché Paolo viene processato da Gallione e anche di Gallione abbiamo la data a causa di un'iscrizione che è stata trovata a Delfi. Siamo dunque in grado di dire che Paolo deve essere rimasto a Corinto un anno a mezzo, intorno agli anni 49-50-51 e poi parte e finisce il secondo viaggio.

Questo è l'unico caso di incrocio tra la cronologia assoluta e relativa che abbiamo ed è molto bello perché riusciamo in questo modo a raffigurarci un tempo preciso in cui Aquila e Priscilla sono con Paolo a Corinto, questa città portuale importantissima greca. Dunque, a causa di Cristo, Claudio, imperatore dal 41 al 54 d.C. ha emesso un editto e questa coppia viene cacciata da Roma. Abbiamo davanti a noi degli emigranti e pur essendo emigranti, pur essendo come è detto persone che debbono espatriare, trovano il tempo di accogliere Paolo. Paolo si recò da loro, ci dice Atti 18, 2.

Che cosa accomuna questa coppia a Paolo?

Certamente la stessa esperienza di essere cristiani e in questo senso, come abbiamo detto sopra, anche perseguitati. Potremmo farci delle domande su come siano diventati cristiani Aquila e Priscilla; ebbene noi non lo sappiamo: Certamente la chiesa di Roma è una chiesa non fondata da Paolo e non abbiamo alcuna notizia di un’azione missionaria a Roma. Come qualcuno ha scritto, qui abbiamo a che fare con dei laici, probabilmente missionari, che hanno annunciato il vangelo e di cui non ricordiamo nemmeno il nome, ma certamente per Luca è chiaro che Aquila e Priscilla sono già credenti in Cristo.

Ed ecco il primo punto che li accomuna, sono legati dalla stessa fede in Cristo Gesù.

C'è anche un secondo punto, che è il secondo punto della nostra riflessione: ciò che li unisce è anche il lavoro, dice Luca in Atti 18, 3 che erano omotechnon cioè dello stesso mestiere, facevano lo stesso lavoro, hanno per ragione la possibilità di comprendersi, di capirsi e dunque per questo Paolo si stabilì nella loro casa e lavorava, erano infatti fabbricatori di tende. Qui abbiamo una piccola difficoltà per quanto riguarda la regola della kashrot perché Paolo era un fariseo e dunque non poteva praticare tutti i lavori, ma è interessante che Paolo lavori, già di per sé questo è un punto fondamentale. Noi sappiamo che l'esperienza del lavoro accomuna i farisei e i rabbini, diversamente per esempio dai filosofi cinici che andavano in giro predicando, parlando, ma che non lavoravano perché era un punto di onore il non lavorare con le proprie mani. Invece noi sappiamo che nella tradizione Giudaica il rabbino, il fariseo, colui che presiede una comunità deve avere un lavoro. Vi posso citare il più importante rabbi della tradizione medioevale che è Rashi Ditouà, il più grande esegeta medioevale ebreo, che viveva coltivando la vigna. Forse, nella Champagne, la sua era una delle più grandi aziende viticole, in quel tempo gli ebrei potevano avere possedimenti, anche se non sempre è stato così, essi sapevano però ben industriarsi nel commercio. Certamente ricordiamo ad esempio un'altra donna ebrea che è Lidia, la quale era produttrice di porpora e dunque sapeva fare le sue cose con le sue mani. Ma è molto interessante che Paolo dica, per esempio nella Prima Lettera ai Tessalonicesi 2, 9, che lui non ha voluto dipendere da nessuno e che lui lavorava con le sue mani, certamente per la difficoltà economica, come vedremo tra poco, ma anche perché è un punto di onore per un fariseo lavorare. Non sappiamo bene che cosa significhi fabbrocatore, probabilmente significa che facessero le tende, al versetto 13 dice schenopoioi tethecne, Paolo viene da Tarso, che è noto perché si trova nella regione attuale della Turchia, proprio sopra il golfo di Antiochia. La regione di allora era detta Cilicia, un luogo di produzione di un tessuto, il cilicio, fatto di peli di capre. Tali peli di capre sembrerebbero essere considerati impuri al tempo di Paolo, dunque forse costruiva tende di altro tipo, in ogni caso, con questo lavoro, riusciva a vivere e così c'è un altro punto di contatto. Paolo, Aquila e Priscilla lavorano insieme e questo significa che non c'è soltanto l'identità cristiana che li unisce ma c'è qualcosa che è anche l'esperienza della vita, , della fatica e tra l'altro una fatica che serve, perché Paolo ha bisogno di denaro per poter dedicare tempo alla proclamazione della Parola, sentite che dice: che ogni sabato, discuteva nella sinagoga. Dunque Paolo deve lavorare e di sabato può annunciare la Parola, cercando di persuadere i giudei e i greci. Ma non è questa la vocazione di Paolo; infatti appena arrivano Sila e Timoteo portando probabilmente delle offerte, Paolo, ci dice Luca, si dedica alla Parola a tempo pieno, e questo è un passaggio molto importante per il nostro ragionamento. Dunque abbiamo visto che Tra Paolo e Aquila e Priscilla c'è una vicinanza per un primo motivo, di tipo identitario, tutti e tre fuggono, tutti e tre stanno scappando e c'è anche una vicinanza legata al modo di vivere, sono tessitori di tende, hanno un punto di unione che è il lavoro, però c'è qualcosa che li distingue.

Arrivano Sila e Timoteo, dice Atti 18,5, e, quando giunsero, Paolo si dedicò tutto alla predicazione. Dunque si passa dall'annuncio che è quello di ogni sabato, (pan sabbthon) a quello invece di chi si occupa totalmente “E quando giunsero Paolo si dedicò tutto alla predicazione”. Prima la CEI traduceva “alla predicazione” ora invece la nuova traduzione è resa più aderente alla traduzione letterale ed è scritto: “Paolo si dedicò tutto alla Parola”.

( sin etecheto to logo ) Questo è diverso del semplice predicare. Perché dedicarsi alla Parola è molto di più, tanto che Luca deve aggiungere un verbo “Paolo si dedicò tutto alla Parola, testimoniando davanti ai giudei che Gesù è il Cristo”

Perché questo però è possibile? Perché Paolo riceve questo aiuto economico e dunque in questo senso si differenzia nella sua vocazione rispetto a quella di Aquila e Priscilla. Non ci viene detto che Aquila e Priscilla hanno smesso di lavorare, perché una famiglia normale non può permettersi di cessare la propria occupazione, invece Paolo può vivere delle offerte dalla Chiesa.

Altrove, incrociando i dati del libro degli Atti con quello delle Lettere in particolare, noi sappiamo che Paolo ringrazia quelle comunità che, tramite Timoteo e Sila, hanno contribuito economicamente per lui.

C’è dunque questo terzo movimento che distingue il loro vivere pratico ai fini del Vangelo. Certo è molto interessante che questa differenza non sacrifichi la loro amicizia, anche se, per dedicarsi tutto alla Parola e alla testimonianza, Paolo lascia la loro casa per andare a vivere presso un certo Tizio Giusto, perché questi abitava vicino alla sinagoga. La scrittura dice di questo Tizio Giusto che onorava Dio, quindi probabilmente era un pagano. Paolo aveva già superato questa barriera, mentre per Pietro c’è bisogno di un’extasis, ossia di una visione di questa tovaglia che scende dal cielo, sopra la quale c’erano ogni genere di cibi impuri e gli viene detto: “Mangia”. Quindi Pietro ha bisogno, per poter andare da Cornelio, di una rivelazione per poter andare a casa di un pagano, mentre Paolo ha già capito che Dio non faceva differenze di persone e quindi se ne va ad abitare da questo uomo perché, dice Luca, abitava vicino alla sinagoga. Cioè c’è anche questo ulteriore avvicinamento di Paolo, di avvicinamento al luogo non solo di incontro per l’ascolto della Parola di Dio, ma anche dove si studia, si conosce (Beta midrash) la Parola di Dio. E dunque, per questa ragione, Crispo, capo della sinagoga credette nel Signore Gesù insieme a tutta la sua famiglia e da qui sorge un’ulteriore persecuzione.

Intanto abbiamo visto che c’è un punto di differenza tra Paolo e Aquila e Priscilla perché, anche se anche c’è un’amicizia bella che li lega, Paolo non per questo è incapace di distinguere tra l’amicizia e la missione che Gesù gli ha dato. Paolo, forse avrebbe potuto abitare ancora con la coppia amica, ma andando ad abitare vicino alla sinagoga, fa una scelta per la Parola.

A causa di questa persecuzione, Paolo dovette lasciare Corinto come aveva lasciato già altre città nelle quali comincia ad agitarsi un’aria pericolosa contro il vangelo. Allora Paolo deve lasciare questo luogo, prese congedo dai fratelli e si imbarcò diretto in Siria in compagnia di Aquila e Priscilla. Ed è molto bello che Paolo abbia deciso di fare questo viaggio con Aquila e Priscilla, che sono quindi dei veri e propri compagni di viaggio. Questo, come abbiamo detto precedentemente è l’inizio del secondo viaggio missionario, un viaggio apostolico nel quale Aquila e Priscilla si pensa che abbiamo partecipato alla vita dell’apostolo.

Paolo non è mai solo quando evangelizza e qui è insieme a questa coppia di coniugi che condividono la sua esperienza missionaria. Poi però fanno scalo ad Efeso e qui Aquila e Priscilla si fermano, mentre Paolo va verso Antiochia, perché vuole andare a Gerusalemme per riprendere poi un altro viaggio, il suo terzo viaggio missionario.

Aquila e Priscilla li troviamo ad Efeso, nell’attuale Anatolia, in Turchia dove c’era una comunità molto importante di cristiani e qui Luca ci dice che, anche senza Paolo, questa coppia di coniugi continuano la loro azione da soli. Ed è interessante che, mentre Paolo è altrove, Aquila e Priscilla compiono un servizio fondamentale per la chiesa: infatti arriva ad Efeso un uomo molto importante e sapiente che si chiama Apollo, un alessandrino capace e conoscitore delle scritture. Chi di voi conosce la prima lettera ai Corinzi ricorderà che ad un certo punto la predicazione di Apollo si troverà come contrapposta alla predicazione di Paolo: “io sono di Paolo, io sono di Apollo…”, quasi che Apollo venisse compreso come un controaltare di Paolo. Ebbene anche Apollo è accolto da Aquila e Priscilla nella propria casa così come è stato accolto Paolo. Perché questo?

Perché Aquila e Priscilla hanno nella propria casa una vera chiesa e questo è il penultimo punto della nostra riflessione.

Vedete che è detto negli Atti degli apostoli che Aquila e Priscilla “ascoltarono Apollo e lo presero con sé”: notate che c’è lo stesso movimento di accoglienza che la nostra coppia usò nei confronti di Paolo. Possiamo incrociare questo dato con un versetto della prima lettera ai Corinzi, al capitolo 16, versetto 19, quando ritornano i nomi di Aquila e Priscilla nei saluti che Paolo scrive a questa comunità dicendo: “Vi salutano le comunità dell’Asia, questa lettera ai Corinti è composta da Efeso, vi salutano molto nel Signore Aquila e Priscilla, e qui c’è una frase che li caratterizza, insieme alla chiesa presso la loro casa. La CEI traduce male: “con la comunità che si raduna nella loro casa” invece non c’è questo verbo. Alla lettera si deve tradurre: “insieme alla chiesa che è (presso) nella loro casa". Traduceva meglio San Girolamo: “cum sua ecclesia domestica”. Ecco perché Aquila e Priscilla sono così abituati a questo gesto di accoglienza, perché non è semplicemente qualcosa che venga dalla loro generosità, ma perché sono la Chiesa. Il Papa nel 2007 nell'udienza generale del mercoledì, il 7 febbraio, ha affrontato proprio la figura di questi coniugi, Aquila e Priscilla che si collocano nell'orbita dei numerosi collaboratori che gravitavano attorno all'Apostolo Paolo e ci dice che Aquila e Priscilla avevano un ruolo (sto citando) importantissimo che hanno svolto nell'ambito della Chiesa primitiva, cioè quello di accogliere nella propria casa il gruppo dei Cristiani locali quando essi si radunavano per ascoltare la Parola di Dio e per celebrare l'Eucaristia, è proprio quel tipo di adunanza che, detto in greco ecclesia (sin theca oichon auton ecclesia), la parola latina è ecclesia, quella italiana chiesa, che vuol dire convocazione, assemblea, adunanza. Nella casa di Aquila e Priscilla si riunisce la chiesa, la convocazione di Cristo che celebra qui i misteri. E così possiamo vedere la nascita della realtà della chiesa nelle case dei credenti.

I cristiani infatti, fino verso il terzo secolo, non avevano propri luoghi di culto, tali furono in un primo tempo le sinagoghe ebraiche, fin quando l'originaria simbiosi tra antico e nuovo testamento e aggiungo io tra cristiani, giudeo cristiani e ebrei ha tenuto e poi si è sciolta e la chiesa delle genti fu costretta (scrive Benedetto XVI) a darsi una propria identità.

Poi dopo questa rottura i cristiani si riuniscono nelle case che diventano così chiesa. Soltanto nel terzo secolo, forse anche più tardi, nascono veri e propri edifici di culto cristiani. Il più antico luogo di culto è Dura Europos, è la più antica testimonianza di una chiesa (è in Siria), ma nella prima metà del primo secolo le case dei cristiani diventano vere e proprie chiese (domus ecclesia). Questo è molto bello perché così comprendiamo che insieme ad Aquila e Priscilla c'è una comunità, non è una coppia isolata, non si tratta semplicemente di due sposi ma c'è la chiesa con loro.

E cosa fanno?

Ecco l'ultimo punto della nostra riflessione: quale ulteriore notizia abbiamo di Aquila e Priscilla? Quale è la loro opera accoglienza, oltre al lavorare come Paolo lavorava, il viaggiare con lui per un tratto almeno di strada? La loro attività è quella di istruire, e questo è molto interessante. Ebbene va a casa per dimorare presso di loro una persona molto dotta: Apollo. Apollo era un alessandrino colto che viene descritto in due modi (aner loghios) un uomo eloquente nella parola e poi sentite, Luca scive dunathos santas grafas, potente nelle scritture, vuol dire che conosceva molto bene le scritture, era una persona dotta, un cristiano, un ebreo, molto esperto, potremmo dire un bravo biblista. Dunque si potrebbe pensare che questa coppia abbia trovato in lui un maestro e invece avviene il contrario Quello che accade è esattamente il contrario perché Apollo cominciò a parlare nella sinagoga di Efeso francamente, ma parlava pieno di Spirito e insegnava ciò che si riferiva a Gesù, sebbene conoscesse soltanto il battesimo di Giovanni. Qui non è molto chiaro, c'è una discussione tra gli esegeti su che cosa significhi ciò, ma si pensa che quest'uomo, pur essendo molto colto, dotto e preparato, non la sapeva tutta. Cioè è come se Luca ci stesse dicendo: "gli mancava un pezzettino, gli mancava qualcosa”: non aveva conoscenza del Battesimo di Gesù, ma solo di quello di Giovanni, in ogni caso Aquila e Priscilla lo ascoltarono.

Scusate, ho detto Aquila e Priscilla, chiedo perdono... Priscilla e Aquila avrei dovuto dire! L'ordine dei nomi è importantissimo negli Atti degli Apostoli! Vi ricordo che fino ad un certo punto nel primo viaggio missionario, Luca scrive di Barnaba e Paolo, ma poi, da un certo momento in avanti, si parlerà soltanto di Paolo e Barnaba. Qui quindi non è casuale, credetemi, che ad un certo punto ad Efeso Priscilla e Aquila ascoltarono Apollo, lo presero con sé e con maggiore accuratezza con la stessa acribia. C'è questo gioco di parole, acribesteron, cioè con maggior accuratezza e con maggiore precisione perché già lui parlava con acribia, con precisione, acribos dice il versetto 25, ma il comparativo di maggioranza acribesteron, ancora con maggiore precisione, accuratezza, Priscilla e Aquila gli espongono la via, la strada di Dio. Qui ricorre il termine che Luca predilige, egli non parla molto di vangelo, negli Atti degli Apostoli il termine tecnico con il quale si descrive la nostra vita è “la via”.

Ecco allora che questo deficit deve essere colmato da qualcuno perché Apollo è molto dotto, ma gli manca qualcosa e Resset (?) scrive: Apollo, grazie ad Aquila e Priscilla, è incorporato nella tradizione ecclesiale che proviene da Gesù, mediante gli Apostoli Paolo e i suoi collaboratori, cioè che cosa mancava a quest'uomo? Era un uomo isolato che girava per conto proprio e che aveva un suo carisma, era molto dotto, ma non era ancora incorporato nella tradizione che partiva da Gesù e che lega Paolo a Gesù, Paolo agli Apostoli, Paolo alla Chiesa di Gerusalemme, insomma sembra di capire che questi amici Aquila e Priscilla stiano compiendo un'opera di unione e di unificazione alla tradizione apostolica.

Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù, Paolo scrive ad un certo punto nella lettera ai Romani e Aquila e Priscilla devono essere tornati a Roma, non sappiamo dove, non sappiamo quando, ma nella lettera ai Romani, nel capitolo 16, tra i tanti saluti personali che prendono l'ultimo capitolo di questa lettera, ad un certo punto Paolo dice Salutate Prisca ed Aquila sin ergus mou, cioè che hanno lavorato con me, con-lavoratori miei in Cristo Gesù e dunque qui c'è un grande onore per questi sposi.

C'è anche un codice del IV secolo, che dice: Salutatemi Prisca e Aquila insieme alla Chiesa che è con loro, quindi Paolo sa che anche a Roma c'è una chiesa che è insieme ad Aquila Prisca, che è la stessa chiesa di cui ha parlato il libro degli Atti degli Apostoli.

Mi sembrava che fosse davvero importante sottolineare quest'opera umile di questi coniugi, che vivono la stessa dimensione apostolica. Non abbiamo paura di pronunciare questo termine “Apostoli”, perché per Paolo, nella letteratura paolina, diversamente dai Vangeli e da altri scritti, per Paolo il termine apostolos è un termine molto più largo. Vi ricordo che per Paolo c'è una diaconessa, Febe, vi ricordo che sono apostoli non solo i dodici, ma molti di più, quelli cioè che annunciano la parola. Dunque mi sembra che davvero Aquila e Priscilla rappresentino la dimensione della chiesa che si distingue da quella di Paolo che è dopo tutto il servo (dulos), il chiamato in modo particolare a servire il Signore, loro continuano a vivere la loro vita, ma, pur vivendo la loro vita nella casa, sono capaci di costruirvi una chiesa. Questo, credo, che sia un percorso che dobbiamo riscoprire per annunciare il vangelo, ciascuno, secondo la proprie competenze e anche in base ai carismi ricevuti, ma senza complessi di inferiorità; ricordatevi che uno può essere un bravo dottore, come dice Luca, o conoscere molto bene le scritture come Apollo, ma senza conoscere questa coppia di amici gli manca comunque un pezzo, e questo lo possono dare soltanto degli sposi cristiani.



Mi sono quasi commosso alla fine della nostra meditazione.

Segue il documento di Benedetto XVI







BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI Mercoledì, 7 febbraio 2007



Estratto dall'udienza.

Aquila e Priscilla

Cari fratelli e sorelle,

facendo un nuovo passo in questa sorta di galleria di ritratti dei primi testimoni della fede cristiana, che abbiamo iniziato alcune settimane fa, prendiamo oggi in considerazione una coppia di sposi. Si tratta dei coniugi Priscilla e Aquila, che si collocano nell’orbita dei numerosi collaboratori gravitanti intorno all’apostolo Paolo, ai quali avevo già brevemente accennato mercoledì scorso. In base alle notizie in nostro possesso, questa coppia di coniugi svolse un ruolo molto attivo al tempo delle origini post-pasquali della Chiesa.

I nomi di Aquila e Priscilla sono latini, ma l’uomo e la donna che li portano erano di origine ebraica. Almeno Aquila, però, proveniva geograficamente dalla diaspora dell’Anatolia settentrionale, che si affaccia sul Mar Nero - nell'attuale Turchia -, mentre Priscilla, il cui nome si trova a volte abbreviato in Prisca, era probabilmente un’ebrea proveniente da Roma (cfr At 18,2). È comunque da Roma che essi erano giunti a Corinto, dove Paolo li incontrò all’inizio degli anni ’50; là egli si associò ad essi poiché, come ci racconta Luca, esercitavano lo stesso mestiere di fabbricatori di tende o tendoni per uso domestico, e fu accolto addirittura nella loro casa (cfr At 18,3). Il motivo della loro venuta a Corinto era stata la decisione dell’imperatore Claudio di cacciare da Roma i Giudei residenti nell’Urbe. Lo storico romano Svetonio ci dice su questo avvenimento che aveva espulso gli Ebrei perché “provocavano tumulti a motivo di un certo Cresto” (cfr “Vite dei dodici Cesari, Claudio”, 25). Si vede che non conosceva bene il nome — invece di Cristo scrive “Cresto” — e aveva un'idea solo molto confusa di quanto era avvenuto. In ogni caso, c'erano delle discordie all'interno della comunità ebraica intorno alla questione se Gesù fosse il Cristo. E questi problemi erano per l'imperatore il motivo per espellere semplicemente tutti gli Ebrei da Roma. Se ne deduce che i due coniugi avevano abbracciato la fede cristiana già a Roma negli anni ’40, e ora avevano trovato in Paolo qualcuno che non solo condivideva con loro questa fede — che Gesù è il Cristo — ma che era anche apostolo, chiamato personalmente dal Signore Risorto. Quindi, il primo incontro è a Corinto, dove lo accolgono nella casa e lavorano insieme nella fabbricazione di tende.

In un secondo tempo, essi si trasferirono in Asia Minore, a Efeso. Là ebbero una parte determinante nel completare la formazione cristiana del giudeo alessandrino Apollo, di cui abbiamo parlato mercoledì scorso. Poiché egli conosceva solo sommariamente la fede cristiana, «Priscilla e Aquila lo ascoltarono, poi lo presero con sé e gli esposero con maggiore accuratezza la via di Dio» (At 18,26). Quando da Efeso l’apostolo Paolo scrive la sua Prima Lettera ai Corinzi, insieme ai propri saluti manda esplicitamente anche quelli di «Aquila e Prisca, con la comunità che si raduna nella loro casa» (16,19). Veniamo così a sapere del ruolo importantissimo che questa coppia svolse nell’ambito della Chiesa primitiva: quello cioè di accogliere nella propria casa il gruppo dei cristiani locali, quando essi si radunavano per ascoltare la Parola di Dio e per celebrare l'Eucaristia. È proprio quel tipo di adunanza che è detto in greco “ekklesìa” - la parola latina è “ecclesia”, quella italiana “chiesa” - che vuol dire convocazione, assemblea, adunanza. Nella casa di Aquila e Priscilla, quindi, si riunisce la Chiesa, la convocazione di Cristo, che celebra qui i sacri Misteri. E così possiamo vedere la nascita proprio della realtà della Chiesa nelle case dei credenti. I cristiani, infatti, fin verso il secolo III non avevano propri luoghi di culto: tali furono, in un primo tempo, le sinagoghe ebraiche, fin quando l'originaria simbiosi tra Antico e Nuovo Testamento si è sciolta e la Chiesa delle Genti fu costretta a darsi una propria identità, sempre profondamente radicata nell'Antico Testamento. Poi, dopo questa “rottura”, si riuniscono nelle case i cristiani, che diventano così “Chiesa”. E infine, nel III secolo, nascono veri e propri edifici di culto cristiano. Ma qui, nella prima metà del I secolo e nel II secolo, le case dei cristiani diventano vera e propria “chiesa”. Come ho detto, si leggono insieme le Sacre Scritture e si celebra l'Eucaristia. Così avveniva, per esempio, a Corinto, dove Paolo menziona un certo «Gaio, che ospita me e tutta la comunità» (Rm 16,23), o a Laodicea, dove la comunità si radunava nella casa di una certa Ninfa (cfr Col 4,15), o a Colossi, dove il raduno avveniva nella casa di un certo Archippo (cfr Fm 2).

Tornati successivamente a Roma, Aquila e Priscilla continuarono a svolgere questa preziosissima funzione anche nella capitale dell’Impero. Infatti Paolo, scrivendo ai Romani, manda questo preciso saluto: «Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù; per salvarmi la vita essi hanno rischiato la loro testa, e ad essi non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese dei Gentili; salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa» (Rm 16,3-5). Quale straordinario elogio dei due coniugi in queste parole! E a tesserlo è nientemeno che l’apostolo Paolo. Egli riconosce esplicitamente in loro due veri e importanti collaboratori del suo apostolato. Il riferimento al fatto di avere rischiato la vita per lui va collegato probabilmente ad interventi in suo favore durante qualche sua prigionia, forse nella stessa Efeso (cfr At 19,23; 1 Cor 15,32; 2 Cor 1,8-9). E che alla propria gratitudine Paolo associ addirittura quella di tutte le Chiese delle Genti, pur considerando l’espressione forse alquanto iperbolica, lascia intuire quanto vasto sia stato il loro raggio d’azione e, comunque, il loro influsso a vantaggio del Vangelo.

La tradizione agiografica posteriore ha conferito un rilievo tutto particolare a Priscilla, anche se resta il problema di una sua identificazione con un’altra Priscilla martire. In ogni caso, qui a Roma abbiamo sia una chiesa dedicata a Santa Prisca sull’Aventino sia le Catacombe di Priscilla sulla Via Salaria. In questo modo si perpetua la memoria di una donna, che è stata sicuramente una persona attiva e di molto valore nella storia del cristianesimo romano. Una cosa è certa: insieme alla gratitudine di quelle prime Chiese, di cui parla san Paolo, ci deve essere anche la nostra, poiché grazie alla fede e all’impegno apostolico di fedeli laici, di famiglie, di sposi come Priscilla e Aquila il cristianesimo è giunto alla nostra generazione. Poteva crescere non solo grazie agli Apostoli che lo annunciavano. Per radicarsi nella terra del popolo, per svilupparsi vivamente, era necessario l'impegno di queste famiglie, di questi sposi, di queste comunità cristiane, di fedeli laici che hanno offerto l'“humus” alla crescita della fede. E sempre, solo così cresce la Chiesa. In particolare, questa coppia dimostra quanto sia importante l’azione degli sposi cristiani. Quando essi sono sorretti dalla fede e da una forte spiritualità, diventa naturale un loro impegno coraggioso per la Chiesa e nella Chiesa. La quotidiana comunanza della loro vita si prolunga e in qualche modo si sublima nell’assunzione di una comune responsabilità a favore del Corpo mistico di Cristo, foss’anche di una piccola parte di esso. Così era nella prima generazione e così sarà spesso.

Un’ulteriore lezione non trascurabile possiamo trarre dal loro esempio: ogni casa può trasformarsi in una piccola chiesa. Non soltanto nel senso che in essa deve regnare il tipico amore cristiano fatto di altruismo e di reciproca cura, ma ancor più nel senso che tutta la vita familiare, in base alla fede, è chiamata a ruotare intorno all'unica signoria di Gesù Cristo. Non a caso nella Lettera agli Efesini Paolo paragona il rapporto matrimoniale alla comunione sponsale che intercorre tra Cristo e la Chiesa (cfr Ef 5,25-33). Anzi, potremmo ritenere che l’Apostolo indirettamente moduli la vita della Chiesa intera su quella della famiglia. E la Chiesa, in realtà, è la famiglia di Dio. Onoriamo perciò Aquila e Priscilla come modelli di una vita coniugale responsabilmente impegnata a servizio di tutta la comunità cristiana. E troviamo in loro il modello della Chiesa, famiglia di Dio per tutti i tempi.